Nel 2019 il tasso di occupazione femminile distante di 17,9 punti da quello maschile. Quasi il 40% delle occupate in tre settori: commercio, sanità e assistenza sociale, scuola. Il reddito medio è circa il 59,5% di quello degli uomini.
«In questo momento le risorse del pacchetto Next Generation Eu rappresentano un’occasione irripetibile» per abbattere il divario tra donne e uomini nel nostro Paese e per riprogettare e potenziare i servizi pubblici di cura, unica leva per ridurre il carico di lavoro informale, non retribuito, che grava sulla popolazione femminile. La sottosegretaria all’Economia, Cecilia Guerra (Leu), lo ha detto forte e chiaro in audizione alle commissioni Bilancio di Camera e Senato sul bilancio di genere per l’esercizio finanziario 2019.
Lavoro femminile, Italia ultima in Europa
Il quadro tracciato da Guerra è tutto fuorché confortante. L’Eu Gender Equality Index ha sì visto l’Italia guadagnare 12 posizioni tra il 2005 e il 2017, ma il nostro rimane «l’ultimo Paese in termini di divari nel dominio del lavoro». Lo scorso anno il tasso di occupazione femminile risultava ancora inchiodato al 50,1% (e con la pandemia è sceso di nuovo sotto questa soglia), marcando una distanza di ben 17,9 punti percentuali da quello maschile. I divari territoriali sono molto ampi: il tasso di occupazione delle donne è pari al 60,2% al Nord e al 33,2% al Sud.
Il 40% delle occupate in tre settori
È sempre molto accentuata, ha rilevato Guerra, la segmentazione orizzontale del mercato del lavoro, con quasi il 40% delle donne occupate in tre macro settori: commercio, sanità e assistenza sociale, istruzione. Questo fenomeno «incide in modo significativo sui divari retributivi di genere, producendo forti svantaggi per le donne, e produce anche inefficienze allocative». Nelle donne tra i 25 e i 49 anni il gap occupazionale è del 74,3% tra quelle con figli in età prescolare e quelle senza figli. «Uno dei sintomi più evidenti delle evidenti difficoltà di conciliare vita lavorativa e vita professionale», ha sottolineato la sottosegretaria. Insieme all’altro dato spia di forte malessere: le dimissioni volontarie, come rilevato dall’Ispettorato nazionale del lavoro, coinvolgono le madri nel 73% dei casi.
Bassa qualità, basse paghe
A risentirne è la qualità stessa del lavoro femminile: è salita al 32,9% la quota di donne in part-time, involontario nel 60,8% dei casi. E sono le donne ad apportare più frequentemente modifiche all’impiego. Peraltro, sebbene più di una su quattro (26,5%) sia sovraistruita rispetto al proprio impiego, è alta nella popolazione femminile l’incidenza di lavori con paga bassa (11,5%). «Il reddito medio delle donne rappresenta circa il 59,5% di quello degli uomini a livello complessivo», ha ricordato Guerra. Una disparità che si riflette in una minore aliquota media per le donne, con l’unica eccezione del più basso decimo di reddito. E che dipende, quando non da vere e proprie discriminazioni, dalla specializzazione di genere tra lavoro retribuito e non retribuito, in virtù della quale più frequentemente le donne accettano retribuzioni inferiori a fronte di vantaggi in termini di flessibilità e orari».
Il peso della cura e degli stereotipi
«Se ci poniamo l’obiettivo di incrementare la partecipazione al mercato del lavoro delle donne» è indispensabile, secondo la sottosegretaria all’Economia, dispiegare interventi «strutturali e considerevoli» per riequilibrare la nota e accentuata asimmetria di genere nella distribuzione delle responsabilità di cura domestica e familiare. Interventi che necessitano di risorse, ma anche di un cambiamento culturale. Perché le indagini dell’Eurobarometro evidenziano una convinzione meno radicata in Italia della rilevanza del tema della parità di genere per garantire una società giusta e democratica. E perché nel nostro Paese risulta forte il radicamento di stereotipi e credenze: il 51% degli italiani assegna alla donna il compito primario di occuparsi della casa e della famiglia, contro l’11% della Svezia e il 14% della Danimarca. Molte italiane hanno interiorizzato lo stereotipo: lo condivide il 53% delle interpellate, a fronte del 44% degli uomini.
Come aggredire le disuguaglianze
Guerra ne è convinta: ora o mai più. Il Recovery Plan è lo strumento per affrontare i divari, a partire dal potenziamento dei servizi di cura, asili nido in primis (la quota di bambini presi in carico dal pubblico raggiunge appena il 12,5%). «Il Governo intende muoversi in questa direzione», ha confermato la sottosegretaria. «E vuole anche prevedere che i processi di definizione e successiva valutazione dei Piani nazionali di ripresa e resilienza includano il più possibile valutazioni degli impatti di genere, accanto a quelli già previsti per la transizione ecologica e la trasformazione digitale». Il rafforzamento dei servizi pubblici di cura «può produrre impatti positivi attraverso tre canali: l’alleggerimento dei carichi tradizionalmente gestiti nella sfera familiare, la maggiore domanda in un settore, quello della cura, ove è più alta la presenza femminile, la riduzione dei forti divari di opportunità di assistenza ed educazione che caratterizzano il nostro Paese».
«Valutare l’impatto di genere nel Recovery Plan»
Uno sforzo appare cruciale. Anche perché finora poco si è fatto. Sul totale di 720,2 miliardi di euro della spesa impegnata nel 2019, esclusa quella per il personale, le spese nel bilancio dello Stato mirate a ridurre disuguaglianze di genere sono stimate nell’ordine dello 0,3% (2,17 miliardi) e concentrate in pochi ambiti. Ma introdurre la valutazione dell’impatto di genere nel Recovery Plan sarebbe un enorme passo avanti: favorirebbe la costruzione di indicatori disaggregati di genere, «da utilizzare anche in futuro nella valutazione sia ex ante sia ex post di tutte le politiche pubbliche». E farebbe sì che gli obiettivi di uguaglianza fossero presi in carico in tutti gli interventi settoriali, «compresi quelli che non determinano oneri aggiuntivi per il bilancio pubblico». Succederà?
Fonte: Manuela Perrone |IlSole24ore.it