Stasera, alle 21, alcune associazioni del mondo della scuola (tra cui Diesse, Disal, Portofranco, Cdo Opere educative) hanno invitato Massimo Recalcati e Julián Carrón a dialogare sul tema Il desiderio si riaccende in un luogo. L’evento si svolgerà presso la Sala Bramante del Palazzo delle Stelline e sarà disponibile in remoto sul canale Youtube della Cdo Opere educative.
Mentre siamo tutti alle prese con mascherine, gel, Recovery fund, distanziamento, chiusure di teatri-movide-scuole-case-chiese, impauriti dalla pandemia che si riaccende, mettere a tema il desiderio potrebbe apparire una distrazione, se non una perdita di tempo in un momento di impellenti scelte pragmatiche. In verità il Censis, già nel 2010, indicava nella carenza del desiderio l’origine delle difficoltà della crisi epocale in corso. Che un istituto del genere qualifichi antropologicamente i problemi che tutti riconducono alla politica e all’economia non è usuale ed è perlomeno curioso. Vale pertanto la pena dare credito a questo appuntamento.
Perché Recalcati e Carrón? Darne le referenze sembrerebbe superfluo. Tuttavia risulta particolarmente interessante guardare l’esperienza da cui provengono, un’esperienza che sul tema del desiderio ha attraversato tutto il secondo Novecento. I due relatori hanno in comune l’incontro con due maestri: Luigi Giussani e Jacques Lacan, che hanno fatto del “desiderio” il mainstream del proprio impegno e delle proprie ricerche. Agli inizi degli anni Cinquanta, Giussani e Lacan hanno vissuto la crisi culturale del dopoguerra da un osservatorio privilegiato: quello sulla condizione spirituale delle nuove generazioni. Lacan in un’ottica intellettuale e psicanalitica, assolta con la mistica responsabilità di un ministro di cose sacre; Giussani nell’esercizio del proprio ministero sacerdotale, assunto da una prospettiva integralmente laica, a cominciare dall’insegnamento della religione al liceo Berchet di Milano.
Si tratta di due maestri nel senso lacaniano e giussaniano: non hanno fornito una ideologia; hanno mostrato un metodo di osservazione dell’esperienza umana a partire dalla simpatia per il suo desiderio, documentandone la fenomenologia esistenziale: non c’è mossa dell’umano che non sorga dall’energia del desiderio.
Questi due maestri del 900 hanno accettato fino in fondo la sfida del loro tempo: aprire un’alternativa al grigio mondo borghese mentre ricostruiva il dopoguerra nella prospettiva di una morale clerico-fascista. L’ultima Azione Cattolica, di cui Giussani era assistente, resisteva alla secolarizzazione richiamando i giovani al principio dell’obbedienza alla tradizione famigliare ed ecclesiale. Dal punto di vista psicanalitico, la scuola freudiana sosteneva la medesima logica del potere: le forze anarchiche dell’inconscio e della società andavano bonificate dal super-io dell’élite e dello Stato. Comune a questi due mondi era l’istanza patriarcale: solo l’ordine imposto tiene insieme gli uomini. Tutti potevano presto accorgersi che questa ottica celebrava le estreme esequie del vecchio mondo. Di lì a poco la rivoluzione giovanile sarebbe insorta per appropriarsi di termini spariti dal linguaggio comune, nonché dai testi sacri. Parole come libertà e desiderio presero corpo nelle piazze e sui muri.
Giussani e Lacan raccolsero la sfida di un rischio: solo l’esercizio libero del desiderio è in grado di creare una comunità di uomini. Purtroppo questo ampio orizzonte, che cominciò a circolare tra i più e meno giovani degli ultimi anni 60 mentre incontravano e leggevano Lacan e Giussani, fu ben presto ostruito dai movimenti che ne politicizzarono la portata per farsi inghiottire di nuovo dal mercato, con la complicità della scuola psico-sociale di Deleuze e Marcuse.
Recalcati dice di essere caduto letteralmente da cavallo quando, incontrando Lacan, fece la scoperta che tutto il valore della persona sta nel poter rispondere alla seguente domanda: “cosa hai fatto del desiderio che ti abita? L’hai messo a frutto?”. La medesima sfida lanciata da Giussani ai giovani con le parole del Vangelo: “Che darà l’uomo in cambio di se stesso?”.
Quello del desiderio è un tema prettamente agostiniano. La frase di Agostino “inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te” è così ampiamente condivisa da costituire il bagaglio spirituale di ogni occidentale più o meno vicino al cristianesimo. Si tratta della ouverture della religiosità medievale e dell’umanesimo moderno: solo una presa in carico integrale del nostro soggetto è in grado di metterci in cammino nel mondo. Ma questa condizione espone ad un travisamento, all’origine sia di un cattivo umanesimo sia di una pessima religiosità. Nell’ambito di una visione cristiana decadente, l’indicazione agostiniana viene così tradotta: poiché l’uomo è un essere soddisfatto solo da Dio deve rinunciare alla vita. Alla “bella vita” come la chiamava Omero. La maggior parte del mondo cattolico del secondo novecento ha imboccato questa strada, e così la parrocchia ha finito per fare la badante di bambini e anziani, senza più incontrare la parte energica del paese. Una società non più credente rovescia allora così le carte: poiché Dio è contrario alla vita noi lo abbandoniamo. È la scelta fatta dal nichilismo gaio, in cui è affogata la generazione che decide la cultura di un popolo.
In verità, la frase di Agostino non mette in competizione un bene celeste con i beni terreni. È specialmente su questo passaggio che risulta geniale l’intuizione di Giussani e di Lacan. Non tanto nel fatto che il desiderio apra una prospettiva sull’infinito sottraendo l’io alla Cosa-finita (da questa angolatura il ruolo di Dio è perfettamente sovrapponibile a quello dell’Altro della psicanalisi), ma dal fatto che l’infinito non è qualcosa o qualcuno che si pospone al di là del finito, l’altra vita accanto o oltre questa vita, ma nel fatto che dentro questa vita l’esercizio del desiderio è già rapporto con l’Altro. Si può dire che nella loro prospettiva il desiderio sia l’infinito stesso ospitato nel finito. Tanto da non risultare una mancanza, quanto piuttosto una presenza dell’Altro in noi, come insegna una delle poesie di Pär Lagerkvist tra le più amate da Giussani: Uno sconosciuto è il mio amico. D’altronde si tratta di una intuizione profonda che attraversa tutta l’avventura dell’umanità, anche se deve sempre essere ricompresa: l’infinito non nega il finito, lo realizza, non dopo ma qui. Ossia, come insegnava Riccardo di San Vittore riprendendo ancora una volta Agostino: Dio non chiede il sacrificio dell’uomo ma la sua completa espressione.
Qui il lavoro di Lacan fa da pendant alla Genesi: il desiderio viene dall’Altro e deve essere assunto dal soggetto. Il desiderio è desiderio del riconoscimento dell’Altro. La Genesi dice nel proprio linguaggio che “l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio”. Dunque l’esercizio del desiderio è il luogo esatto in cui l’io può prendere possesso di se stesso perché incontra un Altro. Per questo ogni forma di potere cerca di difendersi dall’eterodossia del desiderio anarchico ed esplosivo; combattendolo, ostracizzandolo, organizzandolo, riducendolo. “Non fare il bambino” ammonisce dall’alto ogni potere. “Se non sarete come bambini” contraddice chi è venuto in basso, talmente in basso da sussurrare all’orecchio dei cuori: vai fino in fondo alla tua natura.
La vera scommessa è che il desiderio invada l’io, senza nulla togliere ai beni terreni. Proprio nel bel mezzo della vita, non esclusi i piaceri, noi incontreremo l’Altro. Sarà per questo che Giussani entrava nell’agone del dibattito spirituale della sua epoca assumendone tutti i connotati dell’esperienza umana fino all’ultimo margine. Una volta ebbe a dire che il rapporto con Dio passa anche nella bella bevuta di un Barolo.
La scuola, oggi come sempre, ha bisogno di maestri così, che allarghino l’orizzonte del desiderio, in una esperienza praticabile dell’Altro. Purtroppo troviamo sempre più spesso solo regole per il mercato.