Abbiamo pensato di proporvi qui un estratto del passo sul tema, purtroppo, del momento:
“Parleremo quindi di paura e vorrei iniziare cercando di capire quali siano oggi le paure in più “gettonate”. Per scoprirlo mi sono ovviamente appellato a “san Google” e ho pure fatto una ricerca in inglese ‒ chiedendo un aiutino perché non sono molto ferrato con le lingue ‒ per avere una panoramica abbastanza esaustiva. Bene, nella speciale classifica delle paure, conquista il podio la paura della morte, seguita dalla solitudine, dalla gente e dalla paura della paura. Quinta posizione per la “paura della bulla” che ho scoperto essere la canzone di una ragazzina ma che mi ha fatto riflettere sulla circostanza che una delle cause e componenti prioritarie della paura sono le persone. Voglio dire che spesso le nostre paure hanno un volto, sono fatte di carne e ossa ma magari non osiamo ammetterlo. Io per esempio, avevo una paura terribile di mia mamma quando arrivava su per le scale, picchiava la porta e con tono perentorio diceva: «Apri che altrimenti ne prendi di più». Tornando alla classifica, il sesto posto lo conquista la paura della vita. Cambiando ricerca con “paura delle”, vincono le malattie, seguite, appunto, dalle persone; terzo posto per la paura delle donne – e non degli uomini, mah – seguite dalle cimici, dalle farfalle e dalle bambole, che effettivamente a volte sono proprio inquietanti. Passando alla “paura di essere…”, il primo posto lo conquista la paura di essere traditi e a ruota di essere amati, poi c’è la paura di essere incinte, di essere giudicati, malati, lasciati, di essere soli e all’ottavo posto la paura di essere tristi. Ultima classifica: “paura di”. Primo posto per la paura di amare, poi di volare, di essere felice, di morire, di guidare – a Roma sicuramente – di ammalarsi e innamorarsi. E all’ottavo posto, di nuovo, la paura di vivere.
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Dunque, potremmo dire che la paura di restare soli, di essere abbandonati o esclusi rappresenta la sorgente tossica di tutte le altre paure. A partire dalla paura di morire, che non viene mai confessata ma che io invece confesso pubblicamente e spudoratamente essere la mia di paura. Mi capita ancora adesso, di notte, quando mi sveglio e mi dirigo verso il bagno, di essere afferrato da quel terrore: scomparire, non esserci più, per l’eternità. E immagino che l’obiezione sia che proprio a me, che sono sacerdote, una cosa del genere non dovrebbe capitare, eppure la zampata c’è, poi prego e scompare. E, perdonatemi, ma io proprio non riesco a credere a chi dice di non aver paura di morire o di ammalarsi, di perdere il senno, di non essere più autonomo o di aver diagnosticato un brutto male. E la paura della disgrazia imminente? L’abbiamo avuta tutti, milioni di volte. E la paura del futuro? Quella che si traduce nel controllo maniacale del presente, nell’ossessione per la salute, nell’ipocondria e quindi in una vita da malati immaginari in perpetua attesa della mannaia?
Qualche anno fa girava un libro secondo il quale nella Bibbia le espressioni “non temere” e “non avere paura” sono 365. Non so chi sia andato a contarle, e certamente bisogna verificare, ma se ci pensate è vero che tutti i giorni, più volte al giorno, noi abbiamo paura e abbiamo paura di tutto. Ed è per questo che Gesù per primo, molte volte, dice ai Suoi discepoli di non aver paura: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo e dopo questo non possono fare più nulla. Vi mostrerò invece di chi dovete avere paura: temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna. Sì, ve lo dico, temete Costui» (Luca 12, 4-5). E qui in comunità c’è stato un grande dibattito teologico ma alla fine, e all’unanimità, abbiamo concordato che il “Colui” che dobbiamo temere a cui si riferisce Gesù è Satana, il demonio.
Faccio un inciso perché su questo si fonda tutto. Lo ripeterò fino allo stremo: non mi interessa l’identità di Gesù ma i suoi testi sono stati scritti tra il 40 e il 100 d.C., è storia e nessuno l’ha contraddetta. Le Parole di Gesù sono le parole che Gesù fatto uomo pronunciò e chi sostiene che siano “simili” a quelle pronunciate da altri profeti e religioni non ha un problema di fede ma di conoscenza. Perché basta leggere il Vangelo per capire che Gesù pretende qualcosa di inaudito, qualcosa che nessuno aveva mai osato pretendere: essere uguale a Dio. Bene, nonostante sappia che ci sono preti che inorridirebbero, io ai bambini di otto anni dico chiaramente e senza infingimenti che le possibilità della ragione sono due: o Gesù è Dio oppure è un poveretto affetto da un problema psichiatrico che si chiama megalomania. Questo ci dice la ragione. Se però non è un megalomane ma è Dio a parlare, Lui ci dice: «Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure, nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri». (Luca 12, 6-7).
Ora cosa ripete incessantemente l’unico nemico, l’unico da temere di cui ci parla Gesù, quel Gesù figlio di Dio e non un pazzo megalomane? Rispondo con le parole di una mia amica che mi provoca sempre il cuore quando scrive ed è di grande stimolo. Dice così: «Nella canzone “Angelo”, di Francesco Renga, a un certo punto una strofa dice “Siamo soli, è questa la realtà”. Lui a un concerto, c’ero, ha inserito, parlando, “non è vero”. Non so, forse dalla mia prospettiva in realtà era un modo di dire che Dio c’è, che non siamo soli, ma forse lui non intendeva questo, chissà. È che quel “siamo soli”, secondo me, rimbomba in testa a tutti i sei miliardi di abitanti della Terra. Siamo soli. E questa penso che sia veramente l’opera di questo nemico che, “babam”, ti dice sei solo, solo». Perché se già ti dicesse “siamo soli” presupporrebbe una prospettiva comunitaria e invece no, nel nostro individualismo sfrenato le parole che sentiamo rimbombare sono: “Tu sei solo, solo, solo”.
L’ho ripetuto varie volte: i Cinque Passi non sono lo show di un sacerdote più o meno simpatico ma sono l’incontro con una comunità vivente, orante. Ci sono più di sessanta persone che adorano il Signore prima dei nostri incontri, che pregano e digiunano. Io faccio la mia parte, mi preparo ma so per esperienza che tante volte quello che avviene dopo è troppo grande per essere solo un momento di effervescenza. Allora vi dico quello che ho detto a loro, anche se mortifica la mia voglia di piacere perché l’ho già ripetuto ma lo reputo troppo importante. Si tratta della parte del Vangelo che parla della morte di Gesù, sulla quale è stata fatta tanta cattivissima teologia e tanti commenti spesso inadeguati. Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed Egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi Tu». Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Allontanatosi di nuovo, pregava dicendo le medesime parole (Marco 14, 32-39).
Il caro amico don Andrea Lonardo dice che «Abbà» in realtà era una parola che compariva spesso sulla bocca di Gesù. Ha sicuramente ragione però, in tutti e quattro i Vangeli, questa è l’unica volta dove compare la parola «Abbà», che vuol dire papà, babbo. Gesù chiama Babbo il Padre mentre gli chiede di allontanare da Lui l’amaro calice. Capite che la scommessa sull’identità di Gesù è fondamentale? O è un malato di mente a dire quelle parole oppure è il Figlio di Dio. Questa è la vera scommessa, molto più intensa di quella pascaliana: non chi è Dio ma chi è Gesù? Gesù prega il Padre chiamandolo come fanno i bimbi piccoli, e quindi non muore da solo.
L’obiezione classica è quel grido di Gesù sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Matteo 27,46). Ora innanzitutto queste parole sono anche l’inizio del Salmo 22, che inizia con un lamento angosciato simile a un De profundis ma termina con un inno di gloria e di lode al Signore re, una specie di Magnificat o Te Deum, una conclusione piena di fede. Poi, sappiamo che le ultime parole di Gesù in croce, le ultimissime, ce le ha riportate il Vangelo di Luca. Luca non c’era, ha fatto ricerche accuratissime e intervistato, lo dice, i testimoni oculari. E sotto la croce, c’era lei, l’unica che sapeva tutto di Lui, Maria. E dal Vangelo di Luca sappiamo che le ultime parole di Gesù sono state: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23, 34) e poi «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Luca 23, 46). Gesù non è morto da solo e non è morto nel dubbio e su questo punto è stata fatta della teologia semplicemente vergognosa, caricando sulle parole di Gesù tutta quella paura di estinguersi, di essere soli e abbandonati che è molto umana ma non divina e che certamente non era nelle intenzioni di Gesù, quello stesso Gesù che chiama il Padre “Babbo” e che prima di spirare consegna nelle Sue mani il Suo spirito. E lo stesso Gesù di questo passo del Vangelo, che l’ho già detto, desidero al mio funerale: Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». Ma l’altro lo rimproverava: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male». E aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Luca 23, 39-42). Altro che paura! E se a un povero malfattore, il Figlio di Dio dice queste parole, a me cambia la vita. Perché significa che Gesù Cristo non è morto da solo e che quando sarà il mio turno anche io, con i Sacramenti, posso essere unito a Lui e, grazie a questa unione, percepire e pronunciare le Sue stesse parole: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». E vuol dire che, nei momenti di commozione che mi porteranno alla malattia e alla morte, potrò gridare “Abbà”, Padre.
Questo a me cambia la vita perché la paura muore se c’è un Tu. L’orrore, il terrore della malattia e della morte cambiano se hai accanto un Tu forte, se ci sono persone che ami e che ti sostengono in quei momenti. La malattia resta malattia ma assume sembianze diverse perché hai vicino chi ti aiuta a vivere e sopportare il dolore e l’ansia. E se questo è vero allora perdoniamo la bellissima frase che qualcuno ha scritto su un muro qui vicino: «Fear is a lear», la paura è una bugiarda.
Fonte: CostanzaMirianoBlog.com