«E’uno di quei rari atleti che sembrano dispensati dalle leggi della fisica. Di questa categoria fanno parte una mezza dozzina di esempi, una specie di geni, o mutanti, o avatar: Ali, Jordan, Maradona…». Lo scrittore David Foster Wallace, nel suo libro Roger Federer come esperienza religiosa, definisce, a partire dal tennista, le ragioni per cui alcuni atleti ci incantano con gesti la cui perfezione appartiene a un mondo in cui le leggi della fisica del nostro vengono momentaneamente sospese. Che cosa hanno in comune quelli che definiamo infatti «mostri sacri»? Un «corpo che è insieme di carne e, in qualche modo, di luce», che poi è la struttura stessa dell’universo. Materia ed energia interagiscono in modi che la fisica continua a indagare, brancolando spesso nel buio se non nel mistero. Quando uno di questi «dei» muore, tutti, volenti o nolenti, partecipano con un ventaglio di espressioni tipiche della religione, dall’adorazione alla blasfemia, proprio perché si è chiusa la possibilità di vedere la gravità del nostro corpo mutarsi in grazia. L’esistenza è infatti un nodo di gravità e grazia, in cui vorremmo che tutto «il peso» della nostra vita fosse anche tutta la nostra bellezza, come accade a chi corre, chi danza, chi vola… Questo è stato Maradona.
El pibe de oro ha reso evidente questo nodo di gravità e grazia più di altri perché, mentre i corpi di Ali, Jordan, Federer sono già predisposti al miracolo, quello di un uomo di 165 cm e dal baricentro basso rendeva ancora più sorprendente come i suoi passi calcistici potessero diventare una danza, capace di farci vedere che i nostri corpi sono fatti per la bellezza, e non perché perfetti o perché perfezionati da modifiche e artifici, ma perché sollevati e posseduti dall’ispirazione. Solo questo li rende luminosi e leggeri. C’è una partita che rende evidente tutto questo, quella dei quarti di finale dei mondiali del 1986, vinti proprio dall’Argentina di Maradona. L’Argentina sconfisse l’Inghilterra con due reti del fenomeno, siglate in cinque minuti. Avevo 8 anni e mi rimasero impresse, tanto che le ho sempre ritenute una sintesi della vita umana: il primo è il goal più falso e il secondo il più bello della storia del calcio. Nel primo Maradona approfitta, col tempismo istintivo del felino senza scrupoli, di un pallone vagante e scavalca il portiere colpendo la palla con una mano, nascosta così bene dal movimento della testa chiomata, che l’arbitro e la maggior parte dei presenti non videro nulla. I difensori inglesi protestavano con veemenza mentre Maradona esultava senza ritegno. La rete gli valse l’appellativo di «mano di Dio», per la sua divina invisibilità ed efficacia. Una menzogna che ci ricorda che siamo fatti di un impasto inestricabile di male e bene, e che spesso, pur di riuscire in qualcosa, siamo pronti a mentire. Nel secondo goal Maradona riscattò quella menzogna, segnando una rete che ne vale due o forse tre. Poco oltre la zona di difesa della sua squadra, i suoi piedi calamitano un pallone e lo trascinano nel loro campo magnetico per 60 metri in una danza sacra: scarta ogni ostacolo con una leggerezza alata che fa sembrare gli avversari goffi esemplari di una specie incapace di volare. Maradona fa con naturalezza ciò che per gli altri è un miracolo: tanta è l’arte che l’arte non si vede. Wallace, in chiusura del suo libro scrive infatti: «L’ispirazione è contagiosa e multiforme — e anche solo vedere come la potenza e l’aggressività possano essere rese vulnerabili alla bellezza, ci fa sentire ispirati e riconciliati». Qualcosa che noi cerchiamo in ogni angolo del mondo, fosse anche solo per un istante, perché solo questa bellezza che accade senza preavviso e trasforma il peso in leggerezza, ci dà speranza, gioia, energia… Abbiamo bisogno di una bellezza che ispira e riconcilia, perché è una chiamata che, mentre affascina, ci sfida. Non la bellezza ridotta a seduzione che ci manipola e ci spinge solo a dominare e consumare, ma un appello forte e gentile alla ricerca della felicità più autentica, quella che ha a che fare con chi siamo veramente e sembra chiederci: ma tu che ne stai facendo dei doni della vita? Anche i nostri corpi, assai spesso resi opachi dal peso dei giorni e del disamore, diventano di luce quando compiamo uno di questi gesti in cui la bellezza accade senza preavviso, proprio perché non ci siamo tirati indietro, ma con coraggio abbiamo fatto ciò che ci ispirava e lo abbiamo fatto per amore: spiegare una lezione, preparare un soffritto, consolare una persona affranta, scrivere una lettera a un figlio, sorridere a un passante, chiedere come stai e ascoltare davvero la risposta…
In questi due goal ho sempre visto chi sono io e chi è ogni uomo: un bandito e un campione. Sta a ciascuno di noi, volta per volta, scegliere chi vogliamo essere e che eredità vogliamo lasciare.
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it