«Ho pregato con le lacrime, con tanti perché, fino al “perché mi hai abbandonato?”. Ricevevo solo silenzio. Il grande silenzio del Sahara. Il silenzio di Dio. Ma caparbiamente restavo fedele alla preghiera, perché so che Lui c’è. Che è ascoltato il grido di tanti che sono passati per la notte oscura e di Gesù stesso in croce: Padre perché mi hai abbandonato? E con la preghiera portavo tutti a Dio». Sono le parole di padre Pierluigi Maccalli, il missionario rapito in Niger e rilasciato dopo due anni l’8 ottobre scorso. Esattamente un mese dopo, domenica 8 novembre, è stato ricevuto dal Papa e prima ha celebrato la Messa in una parrocchia romana. Nell’omelia non ha potuto non rivivere la sua odissea, sequestrato da feroci aguzzini che volevano convertirlo a forza all’islam. Ma senza riuscirci. «Il deserto – ha aggiunto ancora – è stato un’esperienza di essenzialità. Mi ha ricordato che l’essenziale nella nostra vita è lo shalom, questa armonia tra cielo e terra e tra tutti gli uomini. Essenziale la fraternità. Siamo tutti figli dello stesso Padre. Essenziale il perdono. Non ho rancore verso chi mi ha sorvegliato. Erano ragazzi, giovani col kalashnikov, ma dicevo: non sanno quello che fanno. E neanche chi ha pianificato forse questo. L’ho detto anche a colui che il giorno della liberazione mi portava all’appuntamento. Gli ho detto: “ho una parola da lasciarti, che Dio ci faccia capire un giorno che siamo tutti fratelli. Mi ha risposto: “no, fratello per me è chi è musulmano”. Io ho lanciato il seme, Dio voglia che cresca nel cuore dell’Africa». Parole che denotano l’estrema sofferenza ma anche il coraggio di chi ha rischiato il martirio e non ha ceduto. E che ha vissuto però nella prova il dubbio della fede, quel dubbio di cui il grido di Cristo sulla croce è l’emblema più autentico.
Ed è a quel grido, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», che si ricollega Franz Coriasco nel suo volume Il Dio dei senza Dio (San Paolo, pagine 224, euro 18), in cui racconta la sua perdita della fede, avvenuta alla fine degli anni Ottanta, e la sua esperienza di agnostico che continua a vivere nel desiderio di credere. Giornalista e critico musicale, nonché autore di programmi televisivi, Coriasco si mette a nudo con grande sincerità e umiltà e in questo volume si misura col concetto, o meglio con la presenza/assenza di Dio nella sua vita e nella società e nella cultura di oggi. Quale Dio cercano, o immaginano, i non credenti? E poi, è così evidente e da rimarcare la differenza fra credenti e non credenti? Diversi anni fa su questi temi rifletteva anche Norberto Bobbio, il quale sollecitava credenti e non ad unirsi per combattere contro i pericoli della fede cieca e del non credere a nulla. E di recente il filosofo André Comte-Sponville, autodefinitosi “ateo non dogmatico” e sostenitore dell’esistenza di una “spiritualità per atei”, ha scritto: «Se qualcuno vi dice “so per certo che Dio non esiste”, non avete a che fare con un ateo, ma con uno sprovveduto. Parimenti, se incontrate qualcuno che vi dice “so che Dio esiste”, è uno sprovveduto che ha la fede e che, scioccamente, confonde la fede con il sapere».
Su questa strada l’autore del volume si dice non più interessato al Dio «dall’onnipotenza arbitraria e asettica», né al Dio nel cui nome si sono consumate tragedie e crociate di ogni tipo, e ancora meno «a quello caricaturale di certe omelie buoniste o a quello bricolage dei manuali sincretisti». Cresciuto alla scuola di Chiara Lubich e colpito soprattutto dagli aspetti mistici della personalità della fondatrice del movimento dei Focolarini, Coriasco volge lo sguardo a quel grido «umanissimo urlato prima di morire» da Gesù, a quel Dio debole e impotente cui tanti si sono indirizzati, da Etty Hillesum a Simone Weil, tanto per citare due riferimenti letterari e spirituali di prim’ordine. Senza avventurarsi in disquisizioni teologiche, il libro ripercorre alcuni tentativi di lettura di quel grido. Come quella del cardinal Martini: «Si ha come l’impressione che Gesù si chiuda in se stesso, quasi come stupito, sconvolto dal diluvio di calunnie, di malvagità, di interpretazioni perverse, di crudeltà che si scatenano contro di Lui per accogliere questo mistero di iniquità e per macerarlo dentro di sé per l’umanità». Interpretazione eloquente, quasi una risposta alle critiche di un Sergio Quinzio o più recentemente di un Massimo Cacciari e di un Salvatore Natoli a proposito del silenzio della Chiesa sulle cose ultime. Ancora, papa Francesco più volte ha affrontato questo discorso temerario. Come nel marzo 2015 a Napoli, interrogato da una giovane a proposito del dolore innocente: «Il più grande silenzio di Dio è stato la Croce: Gesù ha sentito il silenzio del Padre, fino a definirlo abbandono. Il nostro Dio è anche il Dio dei silenzi e ci sono silenzi di Dio che non si possono spiegare se non guardi il Crocifisso. Il nostro Dio sta anche in silenzio. Ricordati: è il Dio delle parole, il Dio dei gesti e il Dio dei silenzi». Un simile accento si ritrova nel romanzo La notte di Elie Wiesel, in cui un kapò nazista fa impiccare a un albero un bambino costringendo i detenuti del lager ad assistere. Un prigioniero esclama: «Dov’è il buon Dio?». E lo scrittore risponde a voce bassa: «Eccolo lì, appeso a quella forca».
Fonte: Roberto Righetto | Avvenire.it