1. Se Pierre-Joseph Proudhon riteneva che la proprietà fosse un furto, Karl Marx faceva coincidere il comunismo con l’abolizione della proprietà privata, che invece, secondo John Locke e tutto il pensiero liberale, è il più fondamentale dei diritti, l’unico in grado di garantire compiutamente libertà, pace politica e sviluppo. Pur a decenni di distanza dalla caduta del Muro di Berlino, continuano tensioni e polemiche sul diritto di proprietà: su di esso infiniti fiumi d’inchiostro si sono scritti nel corso della storia, senza quasi mai risolvere il costante interrogarsi sulla sua natura, sulla sua funzione, sulla eticità.
In questo senso, meraviglia il fraintendimento delle parole che Papa Francesco ha pronunciato di recente, nel messaggio ai giudici dei comitati per i diritti sociali di Africa e America, quando ha detto che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata e ha sottolineato sempre la funzione sociale di ciascuna delle sue forme. Il diritto di proprietà è un diritto naturale secondario derivante dal diritto che hanno tutti, nato dalla destinazione universale dei beni creati. Non c’è giustizia sociale che possa cementarsi sull’iniquità, che comporti la concentrazione della ricchezza»[1].
Davvero Papa Francesco ha demolito la dottrina cattolica in tema di diritto di proprietà, come hanno sostenuto sia taluni dei suoi critici sia taluno dei suoi “sostenitori”? Intanto vi è una questione di contesto: il breve videomessaggio – non una enciclica né una esortazione apostolica – è indirizzato a mondi, come l’America e l’Africa, nei quali non ovunque i diritti umani, i diritti fondamentali, e i diritti sociali sono tenuti in massima considerazione. E poi c’è il merito, sul quale val la pena qualche cenno di riflessione di carattere storico, giuridico, etico, filosofico, teologico.
2. Da un punto di vista storico, la dottrina cattolica è sempre stata incentrata su due punti ben precisi: la legittimità del diritto di proprietà e la necessità di un suo corretto utilizzo. I Padri della Chiesa sono chiari: il problema non è la ricchezza o la proprietà in sé, ma l’uso che di esse si fa. Basilio di Cesarea suggeriva:«Non vendere a prezzo troppo alto approfittando della necessità, non aspettar la carestia per aprire i tuoi granai». Clemente di Alessandria specificava che «i beni sono nelle nostre mani come strumenti che risultano utili purché sappiamo adoperarli[…]. Lo stesso vale per la ricchezza. Sai usarla giustamente? Contribuirà alla giustizia. Ne fai un uso disonesto? Contribuirà allora al male. La ricchezza è una serva, non è una padrona. Inutile inveire contro di essa: in sé, non è né buona né cattiva. Buono o cattivo sarà l’uso che noi ne faremo. Tutto insomma dipende da noi».
3. Dal punto di vista etico, la Chiesa ha sempre insegnato che il diritto di proprietà è correttamente inteso se è posto a fondamento tanto del bene individuale, quanto del bene comune. Tommaso d’Aquino con precisione sistematica ha evidenziato il bene necessario del diritto di proprietà, che svolge tre importanti funzioni sia a livello personale quanto a livello sociale:«1) Ciascuno è più sollecito nel procurare ciò che appartiene a lui esclusivamente che non quanto appartiene a tutti, o a più persone: poiché ognuno, per sfuggire la fatica, tende a lasciare ad altri quanto spetta al bene comune; come capita là dove ci sono molti servitori. 2) Le cose umane si svolgono con più ordine se ciascuno ha il compito di provvedere a una certa cosa mediante la propria cura personale, mentre ci sarebbe disordine se tutti indistintamente provvedessero a ogni singola cosa. 3) Così è più garantita la pace tra gli uomini, accontentandosi ciascuno delle sue cose» (Summa theologiae, II-II, q. 66).
4. Dal punto di vista giuridico, la Chiesa ha sempre riconosciuto che il diritto di proprietà è da inscriversi nell’alveo del (dimenticato) diritto naturale: per quanto esso possa e debba essere tutelato, non si può mai utilizzare contro l’umanità della persona e contro la dignità di Dio, poiché è il diritto di proprietà per l’uomo e non l’uomo per il diritto di proprietà.
In questa direzione Benedetto XVI ha esplicitamente ricordato come oggi «a non rispettare i diritti umani dei lavoratori sono a volte grandi imprese transnazionali e anche gruppi di produzione locale. Gli aiuti internazionali sono stati spesso distolti dalle loro finalità, per irresponsabilità che si annidano sia nella catena dei soggetti donatori sia in quella dei fruitori. Anche nell’ambito delle cause immateriali o culturali dello sviluppo e del sottosviluppo possiamo trovare la medesima articolazione di responsabilità. Ci sono forme eccessive di protezione della conoscenza da parte dei Paesi ricchi, mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale, specialmente nel campo sanitario. Nello stesso tempo, in alcuni Paesi poveri persistono modelli culturali e norme sociali di comportamento che rallentano il processo di sviluppo» (Caritas in veritate, n. 22).
5. Dal punto di vista filosofico, la Chiesa insegna a rifuggire sia una concezione del diritto di proprietà che è divenuto un totem dell’individualismo liberale occidentale, sia una concezione del diritto di proprietà che è divenuto un tabù del materialismo socialista. La strada proposta dalla Chiesa non è né una sintesi di compromesso tra liberalismo e socialismo, né una alternativa ai due, ma qualcosa di profondamente e radicalmente diverso.
Giovanni Paolo II nell’enciclica “Sollicitudo rei socialis” del 30 dicembre 1987 chiarisce che la «dottrina sociale della Chiesa non è una terza via tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un’ideologia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale».
6. Dal punto di vista teologico, infine, il diritto di proprietà in sé stesso considerato trova fondamento scritturale in Gen. 1,28, quando Dio Creatore affida all’uomo sua creatura l’intero dominio sul creato, e gli ordina di popolarlo e assoggettarlo; trova nel Nuovo Testamento la cifra etica della sua utilizzabilità nei vari episodi in cui Gesù non condanna la ricchezza in quanto tale, ma il rapporto che con essa si instaura, come per esempio suggerisce Mc. 14,3 sulla vicenda del prezioso olio di nardo[2]. Alla ricchezza e alla proprietà va prestato il giusto valore, senza attaccarsi ad esse come nel caso dell’avarizia, e senza distaccarsi da esse come nel caso dell’eresia del pauperismo – stravolgimento ideologico della povertà francescana – condannata da Papa Giovanni XXII il 12 novembre 1323 con la sua “Cum inter nonnullos”.
Gli innumerevoli documenti di Dottrina Sociale della Chiesa, dall’enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII alla “Laudato sì” di Francesco, sono concordi nel ritenere che il diritto di proprietà sia legittimo, se utilizzato in vista di quella superiore istanza etica che è il bene della persona umana. Le più recenti parole di Papa Francesco, dunque, non dovrebbero essere causa né di sorpresa né di estrapolazione, poiché sul punto , per quanto si è appena riassunto, non vi è alcuna rivoluzione.
Fonte: Aldo Rocco Vitale | CentroStudiLivatino.it