«Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade.
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle.
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata.
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono.
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare».
Così, il 26 dicembre del 1916, Giuseppe Ungaretti, ospite a Napoli da un amico, distillava in «Natale» la pace piena di ferite di qualche ora di licenza dalla cruenta guerra che stava combattendo sul Carso. Ci confida di aver bisogno di stare lontano dalle strade della festa, rimanere in un angolo, ridotto a una cosa, per riscoprire, se ancora possibile, la gioia di esistere. Il «qui» del focolare domestico si contrappone al «lì» del gelo del fronte, dove ha imparato a scrivere sulle scatole dei fiammiferi e su pezzetti di carta i versi rivoluzionari e brevissimi che tutti ricordiamo. Il poeta, spogliato della sua umanità, prova a rinascere dalla vita ferita: così il movimento gioioso delle capriole di fumo del camino si contrappone all’immobilità di chi è stato ridotto dalla guerra a una cosa disanimata. Quando la vita non ci tocca più, due sono i livelli di solitudine che attraversiamo: prima l’indifferenza verso il mondo e poi la repulsione, proprio quella descritta dai versi di «Natale», che però contiene anche il segreto per ritrovare il «tocco» della vita, il suo gusto. Una rinascita.
Anche noi in questo Natale sentiamo sulle spalle il peso di mesi di virus. Anche noi abbiamo bisogno di guarire da una certa indifferenza, se non repulsione, entrata nei nostri corpi e nelle nostre anime.
«Nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore:
non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita»
diceva Ungaretti per resistere, in una notte trascorsa accanto a un compagno morto. Lo scriveva in «Veglia», nella stessa raccolta in cui è inserita «Natale», una raccolta originariamente intitolata «Allegria di Naufragi», un paradosso che la poesia può permettersi: come può esserci gioia nel naufragio? Il poeta risponde così: «Il titolo, strano, dicono, è Allegria di Naufragi. Strano se tutto non fosse naufragio, se tutto non fosse travolto, soffocato, consumato dal tempo. Esultanza che l’attimo, avvenendo, dà perché fuggitivo, attimo che soltanto amore può strappare al tempo, l’amore più forte che non possa essere la morte. È il punto dal quale scatta quell’allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare».
Ecco il paradosso: solo a stretto contatto con la morte si sperimenta che tutto è destinato a naufragare nel mare del tempo. Eppure, proprio quando sono vicine al naufragio, tutte le cose lanciano il loro SOS: in quell’attimo si aggrappano all’amore come il naufrago al salvagente. E solo l’amore può trasformare il naufragio in allegria, perché solo in quell’istante si scopre che da soli non ci si salva.
C’è un’allegria nascosta in ogni naufragio: l’amore di cui abbiamo bisogno e che non abbiamo voluto ammettere per paura che questo significasse essere troppo fragili e vulnerabili. Abbiamo bisogno anche noi di guarire, starcene un po’ in silenzio, come una cosa posata in un angolo, senza mescolarci al groviglio della folla natalizia, e cercare ciò che ci terrà a galla: la relazione che abbiamo con le cose, con gli altri e con Dio. Relazioni che a volte sembrano diventare mute, ma il cui suono si ascolta solo se rimaniamo in un silenzio calmo, paziente e aperto al rischio di chi smette di voler dominare la vita e decide invece di ascoltarla.
Oltre i regali potremmo cercare «sotto» l’albero le radici della nostra vita, che cosa ci rende sempreverdi. Quelle radici sono la linfa per il nostro cuore ferito, per il nostro corpo stanco, per la nostra anima disincantata. Le radici degli alberi non gelano neanche d’inverno, anche quando la neve ricopre totalmente i rami ormai spogli e apparentemente morti. Quali sono le nostre radici? Dove la vita ci tocca, ci custodisce e ci nutre?
Questi giorni, forzosamente lontani dall’abituale «groviglio di strade» natalizie, possono essere l’occasione per raggiungere queste radici, con un esercizio di silenzio come quello descritto dal poeta: proprio nel naufragio da cui veniamo potremmo trovare l’allegria dell’amore che ci manca. La parola «natale» (dalla radice di nascere) potrebbe irradiare il suo potere tutto l’anno se ci ricordassimo che siamo fatti per nascere e non per morire. Come scriveva Rilke nelle Lettere milanesi: «Nasciamo provvisoriamente da qualche parte; solo a poco a poco componiamo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente». E questo comporta, come ogni nascita, un certo dolore. Anche Dio è nato come un naufrago: nudo, senza niente, se non la nostra fragile condizione umana, che da quel giorno è diventata anche divina.
Fonte: Corriere.it