ULTIMO BANCO – 63. Tristezza mezza bellezza
— 18 Gennaio 2021 — pubblicato da Redazione. —Chi conosce la montagna sa che camminare in cresta è tanto bello quanto vertiginoso: ci si sente abbracciati dal panorama e padroni dell’orizzonte, ma stare sospesi tra due voragini è l’unica via per raggiungere la meta e, se non si sta attenti a dove poggiare il piede, l’abisso è a un passo. La tristezza è uno di questi sentieri sul crinale della vita, che spesso non vogliamo affrontare, perché la nostra cultura accetta solo il «positivo» e ci priva così del coraggio per vincere la paura del negativo. Eppure la tristezza è un sentimento «positivo», perché ci «pone» in condizione di guarire dal dolore che la genera: il nostro corpo si difende dalla malattia segnalandola proprio attraverso il sintomo di dolore. Noi invece vogliamo eliminare dalla vita tutto ciò che ci sembra «improduttivo», come macchine da cui ci si attende sempre una performance ineccepibile. Ma noi siamo vivi e dobbiamo rivendicare il nostro diritto alla tristezza come vita ferita che cerca di guarire.
E così, qualche giorno fa, dopo l’ennesimo contraddittorio rinvio del ritorno a scuola in presenza (genitori e ragazzi si stanno ribellando con manifestazioni e ricorsi di cui vi racconterò la prossima settimana), sono stato colto da una profonda tristezza. Ero sanamente triste e questo era il sentiero su cui la vita mi chiamava a camminare con i miei ragazzi per non precipitare nei due abissi al lato del crinale della tristezza: l’indifferenza e la disperazione, che paralizzano l’iniziativa e l’impegno.
La tristezza rende il dolore un sentiero che, affrontato con passi accurati e possibili, permette di resistere a un male inevitabile o alla privazione di un bene. La tristezza è risonanza autentica di fronte al mondo ferito e chiamata a trovare una cura, purché non la si usi come alibi per rimanere fermi, facendola precipitare in apatia o disperazione.
E così ho dedicato un’ora intera a chiedere ai miei studenti quali aspetti positivi e/o negativi stavano sperimentando dopo mesi di Dad.
Sono emerse idee interessanti e più costruttive di quanto credessi. Alla fine una di loro ha ringraziato per l’ora così trascorsa, perché l’aveva aiutata a guardare con meno paura e rassegnazione alla sua frustrazione. Tutti concordavano sul fatto che dare un nome preciso alle fatiche del momento (la lingua madre è madre anche per questo: dire bene le cose è benedirle) e sentire l’esperienza degli altri, anche di un adulto, li aveva sollevati e incoraggiati a non lasciarsi andare (ciò che ci accomuna tutti è la perdita di motivazione, la paralisi del desiderio).
Anche io, grazie a questa vertiginosa camminata in cresta, mi sono ritrovato a riflettere con loro sugli effetti di questo periodo e ho scoperto che proprio la privazione della normalità mi sta aiutando a camminare in modo nuovo. La didattica in genere oscilla tra due metodi di apprendimento: de-duttivo (formulo un principio generale e lo verifico nel particolare) o in-duttivo (osservo il particolare e risalgo al principio che regola il fenomeno), poi si tratta di rendere i ragazzi il più partecipi possibile al processo.
In Dad ho maturato un metodo più ricco e ampio che chiamerei, con Socrate, «maiuetico» o «co-duttivo». La lezione si fa insieme, come un’orchestra che esegue un pezzo: dopo aver reso «fisicamente presente» (data la incorporeità del mezzo di comunicazione) lo spartito (lettura condivisa ad alta voce di un passo dei Promessi Sposi, imparare a memoria una poesia…), l’energia sprigionata dalla materia attraversa tutti che ne diventato «con-duttori» (come per l’elettricità). Tutti sono chiamati a interpretare lo spartito rispettando il pentagramma e gli altri strumenti: la conoscenza somiglia così a una spirale che, giro dopo giro, si approfondisce ruotando attorno all’asse centrale; i singoli diventano una comunità di ricerca; la scoperta coinvolge come in una caccia al tesoro; io sono al servizio della musica della vita tanto quanto loro, ma come maestro d’orchestra.
Non si tratta di un dibattito o di un’improvvisazione ma di una esecuzione che fa tesoro di quanto ognuno scopre, rimanendo nei limiti dettati dall’argomento (il mio compito è che quei limiti vengano rispettati: lo spartito è lo spartito) e la lezione diventa un «concertare», che significa non solo preparare un complesso di musicisti all’esecuzione di un pezzo, ma anche accordare fra loro gli strumenti.
La «co-duzione» trasforma la Dad in un «concerto»: lo spartito crea accordi (con il vissuto personale) e legami (tra le persone). Alla fine della lezione ci sentiamo cresciuti perché, come dice Agostino: «nutre la mente soltanto ciò che la rallegra».
Una gioia che è il risultato di una tristezza «ben vissuta»: un sentimento-sentiero, un sintomo che è inizio di guarigione, perché se un albero si secca, in un suolo che sembra arido, è perché non ha messo radici abbastanza in profondità.
Fonte: Corriere.it