Nel primo giorno di scuola «in presenza» ho ascoltato i miei studenti del secondo anno sui Promessi Sposi. Il romanzo più odiato dagli italiani può avere un effetto sorprendente anche su ragazzi di 15 anni, se lo lasci accadere (cioè lo leggi per intero) e non lo vivisezioni o lo usi come «pre-testo» per degli «interrogatori».
Io sceglievo un passo dai primi capitoli per ciascuno dei miei studenti che, dopo averlo letto con cura, avevano a disposizione dieci minuti, senza che io li interrompessi, per aprire «il mondo» che si trovava in e tra quelle righe. Benché avessimo tutti la mascherina, ho gioito nel vederli entrare spesso in risonanza con le pagine, che ci hanno resi vicini in questo solitario periodo di DAD. Ascoltare dei quindicenni, spesso fermi sul mi piace/non mi piace (sinonimo di mi diverte/mi annoia), argomentare per dieci minuti (sfido un adulto a farlo) sul perché di un aggettivo, di una descrizione, di un gesto, o sulle caratteristiche di personaggi che sono ancora dentro e vicino a noi, ha aggiunto fuoco alla mia gioia di rivederli «in presenza».
Non avevamo reso il romanzo utile a fare interrogazioni ma interrogativi, grazie a Manzoni eravamo ancora «più in presenza»: accorti, pazienti, riflessivi. Non un semplice stare al mondo, ma un più profondo abitarci attraverso l’esperienza umana distillata in un grande classico. E così, tornando a casa, mi è tornato in mente il breve ma potentissimo Sunset limited di Cormac McCarthy, uno dei miei scrittori preferiti.
In una casa popolare di New York un nero quasi senza istruzione e un bianco docente universitario dialogano tra loro. Il professore ha appena tentato il suicidio provando a gettarsi sotto un treno (il Sunset Limited), ma l’altro lo ha afferrato in tempo e poi ospitato nella propria casa. Il bianco gli spiega che ha sbagliato a salvarlo mentre il nero vuole convincerlo del contrario: chiunque avrebbe fatto come lui, perché la vita è sempre più grande dei pensieri o sentimenti che possono portare a preferire la morte. E lo ha imparato da un libro che tiene lì sul tavolo della cucina, il libro di Giobbe, contenuto nella Bibbia.
Il bianco gli risponde di aver letto almeno due libri a settimana per quarant’anni, quattromila libri, ma non quello. Il nero, che parla in modo spesso sgrammaticato, si stupisce del fatto che tanti libri non gli siano serviti ad amare di più la vita. Così il discorso cade su ciò in cui si crede, che è poi ciò per cui si vive (provate a sostituire i vostri «credo in» con «vivo per» e ne avrete conferma). Il bianco aveva creduto nei libri, nella musica, nell’arte… ma poi tutte quelle cose non gli erano più bastate. «Ed è questo che ti ha spinto a buttarti giù dal binario. Non una questione personale?», chiede stupito il nero e l’altro: «Ma è una questione personale! È proprio questo l’effetto dell’istruzione. Rende il mondo intero qualcosa di personale».
Il nero allora gli fa notare la contraddizione: «A che servono idee del genere se poi non riescono a farti tenere i piedi incollati per terra quando arriva il Sunset Limited a 130 all’ora?». Il bianco è costretto ad ammettere: «Forse non credo in niente» (cioè “non vivo per niente”). La cultura è stata solo passatempo o erudizione, infatti non lo ha reso più umano ma più indifferente.
E oggi? L’istruzione ci aiuta a tenere i piedi incollati per terra? Rende il mondo, cose e persone attorno a noi, una questione personale? Maestri e discepoli escono da scuola con più «intelligenza del cuore», una conoscenza delle cose della vita che è amore per la vita? Al bianco è mancato un amico cui confidare la sua solitudine, come sta facendo con lo sconosciuto. La nostra «civiltà» tradisce spesso una contraddizione, la stessa che ha portato il bianco alla disperazione: la cultura non ci rende più attenti, sensibili, amici, umani, vivi… Ma se una cultura non rende la vita più trasparente e i legami tra le persone più semplici e autentici, allora non è civiltà, ma fuga dalla realtà cioè dalla vita stessa.
Il bianco non si lascia convincere dai ragionamenti dell’altro, non vede la risposta eppure ce l’ha sotto gli occhi: non è in un ragionamento ma in ciò che il nero sta facendo per lui. Così se ne va, fermo nel suo intento. Il nero gli sorride ma poi, chiusa la porta, si sente sconfitto e, nella sua povera cucina, piange e prega.
Come andrà a finire? Importa fino a un certo punto, perché quel che conta è ciò che è accaduto. Il nero, pur avendo letto poco, ha una cultura che ama la vita: sa che per essere vivi non bisogna mai perdere la relazione con Dio e con gli altri. Per certi versi egli ne «sa» più del professore, perché «sa stare» nella vita, per quanto ne conosca bene i limiti (ha letto bene Giobbe). E credo che questo si impari soprattutto a scuola, perché l‘istruzione non serve a fare interrogazioni o carriere, ma a rendere il mondo qualcosa di personale… persino i Promessi Sposi.
Fonte: Corriere.it