Non deve pagare l’Imu al Comune di Roma un ente religioso proprietario di un immobile che è sede di una scuola paritaria. Lo ha disposto di recente una sentenza della Commissione Tributaria del Lazio che ha ribaltato la decisione assunta due anni prima dall’organo giudicante di primo grado, la Commissione Tributaria provinciale di Roma, che si era invece pronunciata per il versamento dell’imposta.
La nuova sentenza – emessa tra l’altro da giudici togati che svolgono servizio in Cassazione (presidente Federico Sorrentino e relatore Francesco Ufilugelli) – si basa sulla corretta applicazione delle norme che regolano l’intricata materia dopo i correttivi introdotti nell’ordinamento italiano al tempo del governo Monti, per armonizzazre il nostro sistema di esenzioni alla normativa comunitaria.
In particolare i giudici hanno ritenuto applicabile l’articolo 4 comma 3 lettera c del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze n. 200 del 2012, che va letto in parallelo con il dettato di cui all’articolo 91-bis del decreto-legge n. 1 del 2012 dove sono state elencate le cause di esenzione. Tra queste ultime c’è appunto l’attività didattica, quando però sia svolta con «modalità non commerciali».
Ed è appunto intorno al significato di tale espressione che si è incentrato il contenzioso nei due gradi fin qui espletati di giudizio (in realtà si potrebbe ancora ricorrere alla Cassazione, ma al momento non è dato sapere se il Comune di Roma lo farà). Secondo l’interpretazione data dai primi giudici dalla Commissione Tributaria della Provincia di Roma sulla base di alcune sentenze della Suprema Corte, il carattere commerciale di una attività è da escludere solo nel caso in cui l’attività stessa sia svolta in modo del tutto gratuito. Elemento che non ricorre nel caso in questione dato che gli alunni della scuola paritaria pagano una retta.
La Commissione Regionale, invece, facendo leva sulla lettura del già ricordato decreto ministeriale 200/2012 («lo svolgimento di attività didattiche si ritiene effettuato con modalità non commerciali se l’attività è svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto conto dell’assenza di relazione con lo stesso»), ha stabilito l’applicabilità dell’esenzione.
In base alla documentazione fornita dalla scuola paritaria risulta, infatti, che la retta pagata dagli allievi è di 1.900 euro annui, e quindi significativamente inferiore rispetto al costo medio per studente pubblicato dal Miur che ammonta a 5.739,17 euro (nella prassi valida anche per altre attività la frazione presa in considerazione per sancire l’esenzione deve inferiore alla metà del costo complessivo).
«La questione – sottolinea Francesco Nania, esperto di diritto tributario e di Imu che ha difeso l’ente religioso nella suddetta vertenza – assume particolare rilevanza poiché molti comuni in questo inizio 2021 hanno notificato avvisi di accertamento per l’Imu proprio a carico di Enti religiosi che svolgono, con modalità non commerciali, attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, ritenute dai Comuni (senza alcun fondamento) non meritevoli di esenzione. Al contrario, i principi enunciati con questa sentenza aprono scenari favorevoli agli enti non profit, dato che molte commissioni tributarie, in base all’orientamento della Cassazione hanno finora disconosciuto la valenza del regolamento di cui al decreto ministeriale 200/2012».
Fonte: Mimmo MUOLO | Avvenire.it