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Venezi direttore d’orchestra (o delle inutili polemiche sanremesi)

Lo scopo principale del Festival di Sanremo non è quello di promuovere la musica leggera italiana, ma di formare gli italiani ai dettami della cultura dominante, quella attraverso cui si innerva il potere dell’establishment. A questo servono – nell’edizione di quest’anno – l’omelia femminista di Barbara Palombelli, le battute pro-transgender di Fiorello, la blasfemia e la pseudo-trasgressione di quel calibrato prodotto di marketing che è Achille Lauro, genuino come il parmigiano delle Filippine. Ogni edizione ha il suo programma di educazione civica incorporato. Che non è certo quello di un Giuseppe Mazzini (Dio-Patria-Famiglia) o di un Leone XIII («la democrazia o sarà cristiana o non sarà»).

Direttore o direttrice

Occasionalmente il Festival dà voce a punti di vista anticonformisti, che rappresentano la vera trasgressione ma che sono anch’essi pedagogicamente finalizzati alla riaffermazione del punto di vista progressista. Per esempio l’edizione del 2009 vide in gara la canzone di Povia “Luca era gay”, ma ampio risalto fu dato a un monologo riparatorio di Roberto Benigni, che di fronte a un compunto Paolo Bonolis lesse con intensa partecipazione la lettera di Oscar Wilde al suo amante scritta dalla prigione di Reading dove era rinchiuso. Quest’anno a rompere la monotonia del politicamente corretto è stata chiamata Beatrice Venezi, il più giovane direttore d’orchestra donna d’Europa. La “provocazione” di costei consiste nel fatto che ha preteso di essere chiamata appunto direttore, e non direttrice, d’orchestra. Le prevedibili reazioni ostili sono subito arrivate. L’ex presidente della Camera Laura Boldrini ha addirittura accusato la Venezi di «poca autostima» e di scarsa conoscenza della lingua italiana, perché la parola “direttrice” è da molto tempo di uso comune ed è accettata dall’Accademia della Crusca. E ha riassunto i termini della condanna politica dell’accaduto: «Se il femminile viene nascosto, si nascondono tanti sacrifici e sforzi fatti. Un atteggiamento che non rende merito al percorso che tante donne hanno fatto per raggiungere queste posizioni».

Maschio e femmina

Parole che non rendono giustizia alla realtà. Il femminile sarebbe nascosto se le donne non potessero, per consuetudine o per legge, diventare direttore d’orchestra, o sindaco, o assessore regionale, o capitano dell’aeronautica militare come Samantha Cristoforetti. Se per ogni funzione, professione, ruolo, mestiere i nomi vanno sdoppiati a seconda che si tratti di un uomo o di una donna, il risultato non è la visibilità femminile, ma la frattura del mondo, l’abolizione del senso condiviso della realtà, la fine dell’universalità delle qualità e dei valori. È vero che l’umano non si esprime al singolare, ma al duale: maschio e femmina. Nessuno dei due esaurisce l’umano, ognuno dei due ne rappresenta una versione necessaria ma parziale. Se però uomo e donna non possono avere in comune il mondo, se il mondo deve sempre essere lottizzato fra i sessi in ogni sua espressione, l’unità dell’esperienza umana diventa impossibile. L’enfasi sarà sempre sulla competizione, sull’antagonismo, sulla lotta per il potere. O su un soffocante particolarismo che – quello sì – farebbe pensare alla mancanza di autostima. Come spiegare altrimenti la pretesa che il genere di ogni nome esprimente ruolo o funzione debba conformarsi al sesso del soggetto che lo ricopre?

Maschilizzare un po’, please

Immaginiamo che gli uomini comincino a pretendere che il genere del nome della funzione o della professione che praticano debba sempre essere maschile. Immaginiamo che la guardia forestale pretenda di essere chiamata guardio forestale perché maschio, che la guida turistica esiga di essere definita guido turistico quando si tratta di un uomo, che la sentinella e la vedetta accettino di chiamare Samantha Cristoforetti capitana ma solo se a loro volta vengono ribattezzati sentinello e vedetto. D’altra parte i maschi, che rappresentano il 95 per cento del personale delle forze armate italiane, potrebbero lamentarsi dell’eccesso di nomenclatura femminile nella loro professione: sono femminili non solo le forze armate, ma l’aviazione, la marina, la fanteria, l’artiglieria, la contraerea, la difesa missilistica, la bomba, la mina, la mitragliatrice, la pistola e così via. Maschilizzare un po’, please.

Il miglior africanista italiano

Uomini che avanzassero questo genere di pretese apparirebbero ridicoli e, loro sì, privi di autostima. La quale, per essere sana, deve concepire la possibilità dell’eccellenza del soggetto nell’ambito in cui opera. Ed è proprio questo che la sessualizzazione alla Boldrini dei nomi delle arti e professioni  mette in dubbio. Lo spiega bene un racconto della mia amica Anna Bono, già docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università di Torino:

«leggendo della polemica sul direttore d’orchestra Venezi mi è tornato in mente quando nel 2008 Pialuisa Bianco (allora direttore del Forum strategico del ministero degli Esteri – ndr) mi ha presentata a Franco Frattini, all’epoca ministro degli Esteri, e a Paolo Scaroni che era Amministratore delegato di Enel ed Eni. Disse: “Ecco il professor Anna Bono, il migliore africanista italiano” … se avesse usato il femminile si sarebbe pensato che ero la migliore solo tra le donne africaniste. Lei voleva dire che sono la migliore in assoluto. Sia Frattini che Scaroni hanno risposto: “professore, è un onore”».

Piantare bandierine

Se accettasse di essere “la più giovane direttrice d’orchestra d’Europa”, Beatrice Venezi avrebbe rinunciato a cercare di essere il più giovane direttore d’orchestra d’Europa. Non potrebbe sperare di diventare un giorno il migliore direttore d’orchestra d’Europa, ma al massimo la migliore direttrice. Accetterebbe una riduzione, un confinamento, un limite. La pensavano come lei Susanna Agnelli, che esigeva di essere chiamata senatore e non senatrice, e Susanna Camusso, che per lungo tempo ha preferito il titolo di segretario (e non segretaria, come si dice adesso) generale della Cgil. C’è un femminismo della separatezza e dell’incomunicabilità che frammenta il mondo secondo una logica particolaristica, che oggi dal sesso si è irradiata ad altre forme di appartenenza essenzializzate (razza, etnia, condizione fisica, orientamento sessuale, ecc.), e c’è un femminismo che preserva l’unità del mondo e l’universalità delle qualità. Perché è convinto che le donne sono capaci di eccellenza, e non semplicemente di piantare bandierine dove prima le piantavano solo i maschietti.

Fonte: Rodolfo CASADEI – Tempi.it

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