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ULTIMO BANCO – 71. La Zona rossa

La Zona è protetta dall’esercito che spara a vista a ogni intruso, ma c’è un contrabbandiere che osa affrontare ogni rischio per accompagnarvi i più audaci. Chi riesce a entrarci e a raggiungere la stanza più interna, detta il Tritacarne, realizzerà il suo desiderio più grande. È la trama di Stalker, film del 1979 del grande regista russo Andrej Tarkovskij.

Lo Stalker, che significa in origine cacciatore di tracce, guida gli altri ma nella stanza del desiderio non entra mai. Perché? Perché il suo migliore amico si è suicidato dopo averlo fatto: uscito dal Tritacarne, dove era entrato con il desiderio di riportare in vita il fratello morto, si era invece ritrovato ad essere l’uomo più ricco del mondo.

La Zona realizza il desiderio più grande che non è quello che raccontiamo a noi stessi, bensì quello più profondo, quello che veramente desideriamo: e così quell’uomo, dopo aver scoperto di amare il denaro più di suo fratello, si era suicidato.

In un periodo in cui la parola zona (da una radice greca che vuol dire «legare» e da cui vengono giogo, soggiogare…) è diventata soffocante, mi è tornata in mente questa straordinaria parabola cinematografica che ne ribalta il significato. Infatti, come spiega lo Stalker, la Zona fa «passare solo quelli che non hanno più nessuna speranza. Non i cattivi o i buoni, ma… gli infelici!». I due infelici in questione sono uno Scienziato e uno Scrittore: il primo desidera una scoperta da Nobel, il secondo l’ispirazione per un libro immortale.

I due uomini, insoddisfatti della loro vita, sono convinti che questi successi li libereranno dalla paura che afferra ogni uomo: non valere, essere insignificanti o sbagliati.

 

 

Ma lo Stalker li avverte che l’infelicità non basta per sopravvivere alla Zona: «Anche il più infelice morirebbe se non si comportasse come si deve!». E come deve comportarsi? Spogliandosi da ogni autoinganno e affrontando la verità su se stessi.

Infatti i tre avanzano faticosamente in un’ambientazione simbolica biblica: dalla stanza delle dune, deserto che rappresenta la perdita di ogni riferimento certo, a quella piena d’acqua, segno di purificazione e rinascita. Il viaggio diventa tortuoso perché, anche se la Stanza è molto vicina in linea retta (in fondo noi spesso sappiamo cosa vogliamo ma non troviamo il coraggio di ammetterlo e di rischiare), per raggiungerla ci vuole tutto il tempo che ci vuole, perché quella del desiderio è una via in cui si avanza solo liberandosi: la vita autentica è un viaggio faticoso in cui a un certo punto si è costretti a buttare la zavorra dei desideri falsi.

Infatti il desiderio, spesso influenzato dalla cultura dominante, dalla paura, dai sensi di colpa… ci inchioda a terra: l’infelicità, necessaria a entrare nella Zona, è per questo l’inizio della guarigione non una condanna.

Per questo lo Stalker spiega che bisogna arrivare nel Tritacarne «indifesi come bambini, perché la debolezza è potenza, e la forza è niente».

Il desiderio è il principio di animazione della vita e i bambini ne sono, almeno per poco, portatori autentici, perché non hanno ancora fatto in tempo a inseguire miraggi di felicità proposti o imposti dalla cultura o dalle aspettative altrui: oggi il consumo e l’autoaffermazione contro tutto e tutti. Ormai prossimi alla meta lo Stalker avverte i due uomini: «È il momento più importante della vostra vita! Qui si compirà il vostro desiderio più segreto, quello più sincero, quello più sofferto. Non bisogna dire niente. Basterà concentrarsi e cercare di ricordare tutta la vita…».

Il desiderio non è qualcosa da esprimere, abita già in noi. Lo spiegava il regista, innervosito dalle cervellotiche interpretazioni del film: «La Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero». Ecco la vera Zona rossa.

Il Tritacarne è la verità su ciò che ci tiene in vita: per cosa e chi vivo? Infatti dalla Zona, precisa lo Stalker, «esce vivo solo chi ha qualcosa di buono da ricordare».

La vita non è, come si crede spesso, l’accumulo di cose («il passeggero») per una chimerica felicità sempre da venire, ma la profondità di vissuti buoni («il fondamentale»: ciò che dà fondamento). Il desiderio è memoria — paradosso — perché rende ogni istante del presente traboccante di senso e quindi «memorabile».

Per sapere che cosa vogliamo, se i nostri desideri sono autentici o siamo schiacciati da quelli della cultura dominante o delle aspettative altrui, bisogna fermarsi e chiedersi: che cosa ricordo «di buono» nella mia vita? Ho provato a farlo e ho visto dei volti e delle opere. Avevano in comune il fatto di essere istanti in cui ho amato e sono stato amato, in cui mi sono preso cura del mondo nel modo irripetibile in cui posso farlo, con tutti i miei limiti, solo io. E anche se a volte mi perdo, non desidero altro.

Fonte: Corriere.it

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