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ULTIMO BANCO – 73. Precipitare

«Sono una mamma e una maestra di scuola primaria. Anni fa sono stata nominata insegnante di sostegno di Laura, una bambina gravissima e bellissima. La maestra prevalente mi accoglie sbrigativa: “Stai attenta alla madre, cercherà di tirarti dentro alla sua sofferenza e poi è fissata con il fatto che la figlia può far tutto, capisce tutto, ed è presente”. Resto zitta. Mi dice che in mattinata è prevista un’uscita e la madre di Laura si è “fissata” che debba andarci anche lei. Intanto incrocio gli occhi della bimba e dentro di me le parlo e le sussurro: “Stai tranquilla, ti ci porto io”».

Così inizia «Il precipizio dell’amore», titolo che Mariangela Tarì — madre di Sofia, bambina disabile e Bruno, colpito a 5 anni da un tumore al cervello — ha dato a quelli che definisce «solo appunti di una madre», ma sono invece bombe interiori: «Laura sorride, però nessuno, tantomeno la maestra che la conosce da anni, sa dirmi quali siano le sue competenze, e la diagnosi funzionale è troppo generica. Parlo con la maestra di sostegno precedente che mi scarica addosso una serie di cattiverie sulla madre e sul fatto che non si può lavorare con un handicap così grave. Le chiedo se ha mai usato la Comunicazione Aumentativa Alternativa o la tecnologia. Ribatte che non può sapere tutto. Resto ancora zitta. Intanto sono completamente innamorata della mia bimba. Le risposte le ho da lei. Uno scricciolo accartocciato su se stesso che indica in modo corretto tutti i colori, le forme, le lettere, i numeri, risponde esattamente alle mie domande con gridolini che interpreto come lei vorrebbe».

Questo libro mi ha ricordato i versi di «Venerdì santo nei corridoi della metropolitana» di un poeta che amo, Adam Zagajevski, morto pochi giorni fa:
«Ho ascoltato la Passione secondo Matteo
che tramuta in bellezza il dolore.
Ho letto Fuga di morte di Celan
che tramuta in bellezza il dolore.
Nei corridoi del metrò il dolore non si tramuta, solo perdura, senza tregua».

Si può mutare il dolore in bellezza? Quando l’autrice scopre la gravità del tumore del figlio scrive: «Ero così incazzata che mi precipitai in chiesa e tirai giù il crocifisso». Il crocifisso erano diventati il bambino, lei, il marito. Ma il racconto proprio allora comincia a mostrare che ciò che non sappiamo fare, le soluzioni che non sappiamo trovare, sono solo carenze di amore verso il pezzo di realtà, anche il più ferito, che ci è stato affidato.

Tarì impara a «precipitare» nella ferita (dal latino prae più caput, a testa in giù, che io tradurrei con metterci anima e corpo) e così fa con Laura: «Le ho dato mille baci e lei mi ha fatto mille carezze. A fine giornata, la maestra di classe mi dice: “Sei molto portata, ne avevamo bisogno!”. Mi giro e riesco a dire d’un fiato: “Corro. A casa c’è mia figlia completamente disabile che mi aspetta”. Il giorno dopo le maestre cercano di chiedermi scusa, ma replico: “Sentite, io non sono la maestra di questa bambina, sono una maestra di classe, a supporto della classe, la bambina è di tutti, quindi o si programma insieme o sono cavoli amari”».

Tramutare il dolore in bellezza è possibile solo così, e la Pasqua lo racconta: un uomo ucciso brutalmente torna nel quotidiano vivere dei suoi e si fa riconoscere dalle ferite («Metti il dito nei buchi» dice all’incredulo Tommaso, lo invita a «precipitare» nel dolore trasformato in vita dall’amore), perché «risorgere» è precipitare — per amore — nella vita, come afferma Tarì alla fine del libro: «Più il dolore ti schiaccia più la reazione della vita è forte. Come se il male premesse su una molla e ne saltasse fuori il bene. Per chi ha una vita serena è incomprensibile, ma per noi attaccati dalla malattia e dalla morte la vita diventa un bene da spolpare fino all’osso. Sofia ci ha costretti a sorridere quando non ne avevamo la forza, a cantare per ore, a leggere favole, a essere il suo corpo. Quello che inizialmente sentivamo come una forzatura, ha invece insegnato ai nostri cervelli a tracciare una strada alternativa, ha creato nuove sinapsi, prodotto ossitocina. L’esercizio di forzare la felicità alla fine l’ha resa possibile».

Risorgere è l’esercizio quotidiano di precipitare (guardare, ascoltare, cercare soluzioni) nella realtà: solo così sboccia la vita in e attorno a noi.

Amare non è un’emozione ma un’azione di testa, cuore e corpo, una presa di posizione di fronte alle cose e alle persone, come Tarì dice alle colleghe: «Se vedeste quello che vedo io in lei (Laura), se vedeste dentro questo corpo che non risponde una ragazzina come le altre desiderosa di scoprire, di sapere, di giocare, di interagire, allora tutta la classe sarebbe migliore, voi sareste delle persone migliori e il mondo sarebbe una favola». Solo quando «precipitiamo per amore» anche il dolore dei corridoi del metrò (o della scuola) si trasforma in bellezza ed è Pasqua di resurrezione. Ne abbiamo bisogno tutti: me lo e ve lo auguro.

Fonte: Corriere.it

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