Secondo un recente sondaggio circolato tra i prelati tedeschi il 25% dei fedeli sta seriamente pensando di abbandonare la Chiesa. Che cosa salva la sua unità?
Tornano a farsi agitate le acque del mondo cattolico tedesco. Secondo un recente sondaggio, circolato tra i prelati della Repubblica Federale, il 25% dei fedeli sta seriamente pensando di abbandonare la Chiesa per motivi che non sono affatto nuovi: la gestione non trasparente delle vicende legate agli abusi sessuali, le idee della Chiesa sulla morale sessuale e lo spreco delle risorse economiche frutto delle offerte dei fedeli. Cresce così il dissenso e l’aperta protesta: sono 2600 le firme raccolte nel paese tra religiosi, parroci, monaci e suore contro la decisione della Congregazione per la dottrina della fede che – nell’ormai celebre Responsum – ha respinto la possibilità di benedire le coppie omosessuali e sono diversi i vescovi che chiedono a Roma di cambiare alcuni passi del Catechismo giudicati anacronistici rispetto ad una sensibilità che, nella patria di Lutero, è sempre stata maggiormente in sintonia con le posizioni più progressiste e liberali. Insomma, da molte parti si vocifera di un imminente scisma dell’episcopato tedesco che non lascerebbe tranquille le notti del Papa.
La realtà, probabilmente, è un’altra: gli scismi costano e per prendere corpo hanno tremendamente bisogno di supporti politici. Accadde nel V-VI secolo con lo scisma successivo al Concilio di Calcedonia, che trovò terreno fertile nella contrapposizione alle politiche fiscali dell’Imperatore, accadde allo scoccare del primo millennio quando la rivalità tra la corte di Costantinopoli e quella degli Ottoni fece da cornice alla scomunica che portò alla separazione dell’Oriente dall’Occidente, accadde infine dopo i fatti del 1517 quando la Riforma di Lutero decollò più per il desiderio dei principi tedeschi di affrancarsi dalle gabelle romane che per severe convinzioni teologiche che, al contrario, maturarono successivamente grazie all’acume di Melantone. Ogni cinquecento anni la cattolicità sembra essere condannata ad una separazione, ad un cruento divorzio che segna in qualche modo una nuova rotta geopolitica più che un reale orientamento spirituale.
E allora, se proprio di scisma si vuole parlare, è al Nordamerica che occorre rivolgere lo sguardo, come ha recentemente raccontato il professor Borghesi nel suo libro Francesco: la Chiesa tra ideologia teocon e ospedale da campo in cui lo studioso ha fatto emergere puntualmente come la teologia dell’episcopato nordamericano trova oggi risorse economiche e supporto geopolitico dal vasto mondo orfano di Trump, ma ancora potentissimo nel gestire fondi e indirizzare l’elettorato: il vero pericolo per il pontefice argentino, e per i suoi successori, si nasconde tra le pieghe di un cattolicesimo armato, ridotto ad ideologia che – alla pari di quello tedesco ma con mezzi infinitamente superiori – pretende di dettare temi e tempi al Vescovo di Roma e che, giorno dopo giorno, si mostra sempre più incline al grande strappo che all’appassionata ricerca di un punto di incontro e di comunione.
Si obietterà che la Chiesa non è compromesso, che la dottrina di Cristo non può essere oggetto di mercanteggiamenti o di facili accomodamenti, che cercare punti di caduta è compito della politica e non della fede. Ebbene, se questo è vero, è altrettanto vero che nella storia bimillenaria del cattolicesimo i punti di caduta non sono concetti, ma sono persone, menti, uomini e donne, in cui la fede si è incarnata e ha mostrato a tutti lo splendore di una Verità non negoziabile: Atanasio, Basilio, Bernardo, Teresa d’Avila non sono solo nomi di santi, ma nomi di scelte precise che la cattolicità ha dovuto compiere per uscire dall’impasse di una lotta fratricida che ne stava minando credibilità e fondamenta. Quando l’istituzione vacilla, quando l’edificio storico della Chiesa oscilla per le scosse telluriche di fazioni più impegnate ad avere ragione che a seguire lo Spirito, è dall’esperienza vissuta da alcuni che la fede riparte.
Il vero pericolo oggi non è l’apostasia intellettuale di un occidente stanco, non è la disobbedienza di un clero che fatica a riformarsi, non è la modernità che assedia l’ultimo fortino degli zeloti, ma l’assenza di un punto – di più punti – in cui risplenda il gusto del vivere, la letizia, la libertà, la disponibilità al sacrificio di sé in nome della sequela di Cristo.
Tornano alla mente due esempi che la Chiesa non può dimenticare facilmente: nel I secolo il cristianesimo era dilaniato a tal punto che i seguaci di Pietro fecero arrestare Paolo e i seguaci di Paolo controbatterono rivelando ai soldati neroniani la posizione di Pietro. In quel contesto ciò che salvò la Chiesa da se stessa fu l’esperienza del carcere Mamertino in cui i due apostoli si riconobbero figli dello stesso perdono, discepoli dello stesso bisogno di salvezza che li portò – secondo la tradizione – a piangere e a riconoscersi amici. Più di mille anni dopo san Francesco era così certo della strada che aveva intrapreso, della riforma che stava abbracciando, che non volle trattenere quella certezza per sé, ma si presentò al Papa per esserne abbracciato.
È l’esperienza del perdono che salva la Chiesa, è l’irrompere continuo nella storia della gratuità di Cristo che la richiama – in precisi volti e in precise parole – alla strada scelta dal Signore per attraversare il deserto di questo tempo.
Sembrerà stupido, sembrerà ingenuo, ma se davvero qualcuno vuole pregare per l’unità della Chiesa preghi perché un vescovo tedesco, per puro caso, diventi amico di un vescovo nordamericano, preghi perché sbocci un’amicizia, perché accada un incontro, perché siano affascinati dallo stesso sguardo, dalla stessa strada, dalle stesse lacrime. Preghi che, nel cuore della notte, siano svegliati dal benedetto tormento che accompagna tutti coloro che scoprono che per vivere c’è sempre – e solo – bisogno non di aver ragione, ma di essere abbracciati da un Padre, di essere confermati da Pietro.
Fonte: Federico PICHETTO | IlSussidiario.net