“Viviamo come un unico corpo e mettendo tutto nelle mani del Padre che ama”. Parla una suora delle Trappiste di Vitorchiano
Il Papa emerito Benedetto XVI definì una volta la Regola benedettina “arca di sopravvivenza dell’Occidente” aggiungendo che “questo tempo ha bisogno di uomini come lui per risalire alla luce e generare un mondo nuovo”.
Non è un caso che abbia scelto come suo nome papale proprio quello di Benedetto, il monaco dapprima eremita che poi diede vita nel 500 dopo Cristo a una serie di conventi dove vigeva la regola della preghiera comune, di quella personale e del lavoro. Il monachesimo benedettino si diffuse in tutta Europa e in secoli di barbarie fu luogo di conservazione e di rinnovamento della civiltà e della fede.
Oggi in un tempo in cui viviamo una nuova barbarie fatta di nichilismo, abbandono di Dio, distruzione della famiglia, lavoro come idolo assoluto c’è bisogno di luoghi come questi. Viviamo anche in un’epoca storica dove la pandemia da Covid ci ha riportato alle antiche pestilenze che si pensavano sconfitte per sempre. Le analogie sono molte. Un esempio dei più eclatanti è quello del noto monastero di suore trappiste di Vitorchiano, dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza che, come dicono loro, “appartiene a quel movimento monastico che seguendo la regola di San Benedetto evangelizzò e promosse lo sviluppo dell’intera Europa”.
Un monastero che vede una crescita continua di vocazioni, che apre nuove sedi in paesi lontani, dove la clausura assume un significato dimenticato dai più, anche dai cristiani: “Se c’è un luogo che impedisce la fuga dalla realtà è proprio il monastero. Nel mondo, di fronte alle fatiche, è possibile cercare distrazioni, evasioni, aggiustarsi in qualche modo. In monastero no. Il silenzio, la liturgia, la vita gomito a gomito con le sorelle ti impediscono di dimenticare e ti aiutano ad andare a fondo, a domandarti il perché, a mettere tutto nelle mani di Dio e questo ci rende libere davvero” ci ha detto una suora di Vitorchiano con cui abbiamo parlato.
In un mondo sconvolto dalla pandemia di Covid, che colpisce ogni categoria di persona, che cosa significa essere in un monastero di clausura? Per molti la clausura significa una sorta di fuga, di ritiro dal mondo, cosa rispondete a chi dice così?
Significa partecipare di ciò che il mondo vive – per molti aspetti con gli stessi disagi, con le richieste di preghiera di tanti che ci contattano –, ma con una forza in più, anzi due, che sono legate: la forza di essere insieme un corpo (portare i pesi gli uni degli altri, sostenersi nei momenti di fatica, di tristezza, di lotta), non siamo esseri isolati; la forza di sapere che tutto è nelle mani di un Padre che ama. Il monastero è “fuga dal mondo”, “ritirarsi dal mondo”, nel senso di una scelta di spostare il proprio baricentro da quel modo di pensare e vivere proprio del “mondo”: dove si inneggia alla libertà e poi si è schiavi della propria immagine, del giudizio degli altri (come se gli altri fossero nemici).
Non è dunque una fuga dalla realtà?
No, questa “fuga dal mondo” non è fuga dalla realtà. Possiamo dire che se c’è un luogo che impedisce la fuga dalla realtà è proprio il monastero. Nel mondo, di fronte alle fatiche, è possibile cercare distrazioni, evasioni, aggiustarsi in qualche modo. In monastero no. Il silenzio, la liturgia, la vita gomito a gomito con le sorelle ti impediscono di dimenticare e ti aiutano ad andare a fondo, a domandarti il perché, a mettere tutto nelle mani di Dio e questo ci rende libere davvero.
L’anno scorso avete aperto un vostro monastero in Portogallo, dove non ne esistevano più, e siete presenti in molte parti del mondo: questo cosa significa?
Sin dalle origini il monachesimo benedettino è stato esperienza di dilatare i confini della Chiesa, perché il cristianesimo è essenzialmente missionario. La clausura è entrare nel proprio cuore per conoscerci in verità e conoscere. Chi questo cuore ce lo ha dato, vuole e può risanarlo; allora si imparano la compassione, il con-sentire e l’essere in comunione con gli altri, portare il mondo davanti a Dio e Dio nel mondo.
Può approfondire questo aspetto?
Questo lo testimonia una comunità di fede dove viviamo tutte avendo al centro Cristo. Lo testimoniamo attraverso il nostro lavoro e le relazioni che si intrecciano con il mondo circostante e, in modo eminente, nella liturgia che nei nostri monasteri è offerta a quanti desiderano pregare con noi. La nostra comunità vive la missionarietà anche attraverso l’esperienza delle fondazioni (8 dal 1968 ad oggi) che sono la possibilità di trasmettere la vita che abbiamo ricevuto ai popoli e alle vocazioni che sono arrivate lì dove è sorto un nuovo monastero.
Che rapporto c’è tra vita contemplativa e il nulla che ci disgrega in questa società moderna sempre più nichilista e in preda all’individualismo più estremo?
Lo stesso rapporto che c’è tra una malattia e la medicina che la combatte. La vita monastica è scoprire e seguire l’unico senso che sostiene la vita, Colui che è il significato di tutto. La relazione con Cristo nella Chiesa unifica le nostre persone e i rapporti tra noi. Così la quotidianità, il lavoro, le relazioni, divengono luoghi di comunione.
Avete molte giovani che si consacrano alla vita in clausura. Che cosa le porta da voi?
Fin dai tempi di San Benedetto, all’origine della vocazione alla vita monastica c’è il desiderio di felicità. Lei parla molto di clausura, e capisco che chi vive nel mondo questa è la prima cosa che vede, ma fondamentalmente la cosa che colpisce di più chi avvicina un monastero è una gioiosa vita comune e la preghiera liturgica. Poi certo c’è la scelta di appartenere al Signore in modo esclusivo e questo implica lasciare il resto.
Questa Pasqua è ancora segnata dalla pandemia e dalla morte: qual è la vostra offerta? Che cosa chiedete? Quale messaggio?
Siamo inserite come tutti nelle difficoltà della pandemia e tante di noi hanno visto la sofferenza di persone care e le difficoltà dell’economia del nostro paese e di tanti altri; pensate anche solo alle nostre fondazioni in paesi del mondo in via di sviluppo. Per noi è una priorità portare tutto questo nella preghiera, perché l’unica, vera, grande offerta è quella di Cristo al Padre per la salvezza del mondo.
Fonte: Paolo Vites | IlSussidiario.net