Secondo la responsabile del dicastero della Famiglia «il provvedimento è solo il primo passo di una politica complessiva per il sostegno alle coppie con figli. Ci ispiriamo al modello francese»
«Un passo storico» e un «buon giorno per l’ Italia». Non nasconde la soddisfazione la ministra per le Pari Opportunità e per la Famiglia Elena Bonetti dopo il plebiscitario, definitivo via libera dato dal Senato all’ assegno unico e universale per i figli, divenuto legge il 30 marzo scorso. «Ho fatto l’ esperienza di un Paese che ha saputo assumersi una responsabilità grande, storica direi, e di un Parlamento che ha rimesso al centro le giovani generazioni. Un passo, quello dell’ assegno, doppiamente importante, peraltro, vista la drammatica fase emergenziale e il momento di dolore che le famiglie italiane stanno attraversando a causa della pandemia», osserva la ministra. La prossima tappa a breve sarà la definizione dei decreti attuativi della legge entro il primo di luglio.
Ministra, perché si può, a buon diritto, parlare di provvedimento “storico”?
«Perché con questa legge è stato compiuto un concreto passo in avanti di una riforma, quella del Family Act, attesa da anni. L’ assegno è il primo pezzo di questa grande riforma nata da Italia Viva, costruita con un vasto dibattito politico e con tutta la società civile, già approvata nel suo insieme dal precedente Governo e ora in discussione alla Camera. Una riforma complessiva che tratta le politiche familiari finalmente come politiche di investimento nel sostenere le famiglie, in prospettiva di attivarne l’ autonomia e la responsabilità educativa, ma anche come risposta di solidarietà di tutta la società nei confronti di questo importante compito, che è di tutti».
Assegno unico, ma anche “universale”. Cioè?
«Sarà per tutti i bambini, nessuno escluso. Oggi non è così: non tutte le famiglie ricevono un aiuto da parte dello Stato per il sostegno alla genitorialità. Per esempio, le partite Iva e i lavoratori autonomi non hanno assegni familiari; gli incapienti, proprio le famiglie più povere, non beneficiano di detrazioni fiscali per i figli a carico. E le misure fin qui adottate hanno sempre risposto a bisogni riconosciuti come momentanei, ma che non avevano carattere strutturale, stabile, che è invece l’ elemento che distingue una politica di investimento familiare e demografico da una esclusivamente assistenziale e di emergenza».
Ci sta dicendo, quindi, che l’ assegno non avrà effetto se non inserito in un progetto di riforma complessivo delle politiche familiari?
«L’ assegno è importante, ma sarà efficace dentro un nuovo approccio integrato e multidimensionale al tema. Per investire nella famiglia e riconoscerne il ruolo generativo di valore sociale serve certo un sostegno economico, ma nel contempo si deve investire nell’ educazione, nel sostegno alle spese educative, nei servizi scolastici; serve la riforma dei congedi parentali paritari per tutti i lavoratori; serve investire nel lavoro femminile: tutto quanto, cioè, quello che costituisce l’ altra parte della riforma del Family Act, compreso infine l’ investimento sui giovani, dalla formazione universitaria all’ inizio dell’ attività lavorativa, fino a un piano-casa per le giovani coppie».
Qualcuno paventa, tuttavia, che proprio l’ universalità dell’ assegno possa portar via risorse ai figli di chi è in difficoltà per dare anche ai figli dei più abbienti.
«Abbiamo attuato un principio in base al quale la vita di ciascun bambino e bambina è un valore per tutta la comunità e, in quanto bene per tutti, ha diritto a un sostegno da parte di tutti. Proprio come i diritti allo studio e alla salute. Perciò non si toglie affatto ai più poveri per dare ai più ricchi: è garantito a tutti nelle proporzioni delle condizioni in cui ognuno si trova. Non faremo, cioè, parti uguali tra diseguali. L’ assegno sarà proporzionato in base al reddito familiare Isee».
L’ Italia è l’ ultima in Europa a introdurre l’ assegno unico per i figli. A quali altri ordinamenti vi siete riferiti?
«Ho guardato in modo particolare al modello francese, proprio perché adotta un approccio strutturale che tocca fiscalità, ma anche carichi di cura e lavoro femminile. L’ esperienza francese dimostra che di per sé non basta un assegno unico a fa crescere la natalità, ma che uno dei fattori principali in questo senso è l’ occupazione delle donne».
Cioè che, laddove le donne lavorano, aumenta pure il tasso di fecondità?
«Sì, e anche il Presidente Mattarella ha recentemente evidenziato che dove cresce il lavoro femminile cresce anche la natalità. I dati francesi lo dimostrano in positivo. Quelli italiani in negativo. L’ Italia è agli ultimi posti in Europa sia per percentuale di donne che lavorano che per nuove nascite. Abbiamo, cioè, un sistema del lavoro che non favorisce la maternità per le lavoratrici e ci trasciniamo uno stereotipo culturale che vuole che una brava mamma non possa lavorare, e viceversa. Ecco l’ importanza allora dei congedi parentali paritari. Più lavoro femminile significa più Pil, relazioni sociali più solide e, di conseguenza, anche aumento della natalità. La nostra bilancia demografica è disastrosa, oggi ancor più aggravata dal covid. Se non ora, quando dovremmo fare un investimento nella natalità?».
Fonte: Alberto Laggia | FamigliaCristiana.it