«Io sono tra i ribelli. Non voglio essere uno di quei leccaculo che hanno paura di dispiacere ai professori. Vendetta su quelli che hanno abusato dei loro diritti». Charles Baudelaire aveva 12 anni quando scrisse queste parole: era stufo di un sorvegliante che, nella sua scuola, aveva picchiato un ragazzo. Nato il 9 aprile di 200 anni fa, a sette anni perse il padre, la madre si risposò con un generale che voleva garantire al bambino una carriera a cui Charles si ribellò, facendosi prima espellere da scuola e poi abbandonando gli studi di giurisprudenza a cui era stato costretto. Divenne ribelle per risentimento ma soprattutto per fedeltà a se stesso, tanto che la madre scrisse anni dopo: «Il generale Aupick aveva fatto per Charles i sogni dorati di un avvenire brillante: voleva vederlo arrivare a un’alta posizione sociale. Ma quale stupore per noi, quando Charles rifiutò tutto ciò che volevamo fare per lui e volle volare con le proprie ali, e essere autore!». Lei e il patrigno disprezzavano le sue poesie spudorate e lo ritenevano un pazzo che sperperava l’eredità paterna in comportamenti immorali, tanto che gli intentarono e vinsero un processo per metterlo sotto tutela e avere il controllo del denaro. Da quel ragazzo in cerca di amore e di libertà nacque il testo che nel 1857 rivoluzionò la poesia moderna, I fiori del male, come racconta Giuseppe Montesano in «Baudelaire è vivo», 1300 audaci pagine in cui l’autore fa quello che bisogna fare con un’opera: intrattenere con ogni riga un dialogo serrato a cui il lettore partecipa a suo rischio e benedizione.
Infatti è proprio Al lettore che Baudelaire si rivolge nella prima poesia della raccolta, dandosi e dandogli dell’ipocrita, cioè (dal greco) attore, uno che non vive ma finge di farlo nascondendo dietro una maschera la sua malattia: la Noia. Non si tratta del sentimento passeggero di chi non sa che cosa fare, ma l’angoscia sottostante alla felicità moderna: pieni ma insoddisfatti, ebbri ma vuoti. Baudelaire non tollerava che si riducesse a bisogno, risolvibile con il possesso di qualcosa, il desiderio, mancanza costitutiva dell’umano, che nulla di finito può soddisfare e che proprio per questo è principio di ispirazione, azione e creatività. L’amaro prezzo da pagare alla riduzione consumistica del desiderio a bisogno è la Noia: l’angoscia di una felicità che, rimossi il negativo e la fragilità della vita, è «pien-essere» anziché «ben-essere». Il paradiso dei bisogni soddisfatti non basta mai a una creatura costitutivamente incompiuta, e così sesso, vino, droghe (di cui Baudelaire tesse un disperato elogio) erano e sono tentativi insufficienti per ritornare nell’Eden perduto, perché godere e possedere, dandoci l’impressione di esistere un po’ di più, ci fanno sentire, solo sul momento, meno inconsistenti e spaesati. «Sento un immenso scoraggiamento, un isolamento insopportabile, una paura perpetua, una sfiducia completa nelle mie forze, un’assenza totale di desideri, un’impossibilità di trovare un divertimento qualunque. Io mi domando senza sosta: perché fare questo? Perché fare quello?». Sono parole che molti di noi oggi potrebbero dire, ma Baudelaire non le usa come alibi, le trasforma in verità e ribellione. Non rinuncia alla certezza che, proprio quella infinita sete di felicità irrisolta, debba avere da qualche parte una risposta. Per questo mi affezionai subito a lui quando il professore di liceo ci fece leggere l’Albatros: seppi di esser fatto per volare ma anche che questo avrebbe avuto un costo, la libertà si paga sempre a caro prezzo.
Baudelaire denuda le radici dei fiori del male in cerca di una terra vergine: «il Nuovo», parola con cui si chiude l’ultima poesia di tutto il libro, Il viaggio. Il Nuovo, l’opposto della Noia che impedisce la partenza, non è «il recente». Il Nuovo è oltre ciò che «il mondo, monotono e piccolo, oggi/ ieri, domani, sempre» può dare, il Nuovo è l’inesauribile desiderio non ridotto a bisogno, è inquietudine che diventa rischio ed esplorazione. Il poeta, immorale, nevrotico, malinconico, isolato, maledetto, metteva in scena chi saremmo diventati. Ridicolizzava, andando in giro con un paio di guanti rosa, la volontà di dominio con cui l’uomo moderno crede di diventare «qualcuno» mettendo le mani su tutto, cose e persone. La felicità si ottiene a prezzo dell’anima, ma occorre capire se mentre crediamo di liberarci ci stiamo solo vendendo al peggior offerente. Solo il Nuovo libera, perché spinge a cercare l’irraggiungibile, abbandonando amari paradisi artificiali e rendendoci coraggiosi come i bambini, perché «per il bambino… l’universo è uguale al suo vasto desiderio», purché a quel desiderio non si rinunci o non lo si baratti con uno specchietto luccicante, ribellandosi a chi ce lo offre, in cambio dell’anima, per arricchirsi e dominarci. e