ULTIMO BANCO – O il voto o la vita!
— 26 Aprile 2021
— pubblicato da Redazione. —
Gentilissimo professore, sono un nonno quasi ottantenne, ma mi permetto di scriverle per lo studente che sono stato e per la gratitudine che provo leggendo gli articoli che mi procuro per due mie nipoti di prima e terza liceo. Il punto è questo, si ritorna a scuola (forse) e i messaggi che pervengono dai professori sono: “Finalmente faremo verifiche — tutte le materie e tutte insieme — e siccome è un anno normale, ci saranno bocciati e debiti”. Io colgo la sfiducia, anche offensiva per chi si è impegnato tutto l’anno, e forse l’indifferenza per quanto hanno vissuto i giovani. Così le mie nipoti preferirebbero restare a casa quest’ultimo mese, pur avendo sempre desiderato tornare a scuola. Questi professori mi ricordano la dedica di Jannacci alla canzone Il giudizio di Dio: “A chi assiste a eventi epocali, ma non se ne accorge!”, forse non sanno cogliere il tempo opportuno che esige anche di cambiare».
Ringrazio questo nonno che mi ha ricordato che in questi mesi non abbiamo perso voti ma vite, non pezzi di programma ma di crescita, e la minaccia non può essere la risposta di un adulto. Il sapere non cresce nella paura della verifica, ma nella gioia della scoperta. È anche una questione di chimica, il sangue infatti si raccoglie dove serve: la gioia coinvolge tutto il corpo e irrora in particolare il petto e la testa; la paura invece solo il petto, il cervello si paralizza. Dovremmo chiederci: se non potessi far leva sulla paura per far studiare i ragazzi, studierebbero?
L’intelligenza cresce in direzione basso-alto (corpo-cervello), destra-sinistra (emisfero del cervello deputato a emozioni/immaginazione/creatività ed emisfero dedicato a calcolo/analisi/procedure). A scuola il modello di trasmissione è spesso ribaltato: sinistra-destra (sapere che l’Odissea ha 24 capitoli è più importante di leggerli), alto-basso (spiegare una poesia viene prima di farne esperienza). Per forzare un percorso innaturale si usa quindi la paura, che convoca corpo ed emozioni in modo reattivo e non attivo. È come allenare qualcuno a una corsa mettendogli alle calcagna un cane rabbioso, invece di far crescere, giorno per giorno, il gusto di correre e migliorarsi con tutto l’impegno che richiede. In un sistema in cui il voto finale è la media — purtroppo poco «ponderata» (come si studia in docimologia), cioè dando pesi diversi alle prove in base al percorso di tutto l’anno e non solo del secondo quadrimestre — delle prestazioni, il voto diventa il fine del sapere e viene identificato con la vita. Il voto è invece soltanto mezzo per due scopi: quantificare l’acquisizione di un obiettivo specifico e trasformare l’errore in risorsa. Se il voto diventa il fine, prioritario sarà cavarsela (l’errore non è risorsa ma condanna) e competere (l’apprendimento cooperativo da noi è ancora poco conosciuto o praticato). Ma cavarsela e competere non sono il fine del sapere (infatti gli «scarsi» restano scarsi e i «bravi» bravi). Non sto suggerendo una scuola senza voti (negli anni ho però imparato l’importanza di unire al voto il giudizio: spiegare l’errore per farlo diventare risorsa e mettere in evidenza le cose ben fatte), ma in cui il voto serve a crescere e non si trasforma in giudizio sull’essere («tu sei la tua prestazione»). Di fronte a un voto basso un discepolo si impegna a «fare di più» solo se sa di «essere di più» dell’esito. La scuola-catena-di-montaggio, identificando prodotto e persona, dimentica la vita (usa il lessico dei bilanci: registro, valutazione, rendimento/profitto scolastico, debito/credito, promozione/bocciatura), la scuola-bottega, dando invece priorità alla relazione maestro-discepolo, punta a sviluppare uno stile unico e a realizzare il capolavoro (lessico vitale: giudizio, storia del ragazzo, crescita, punti forti/deboli, errore/scoperta).
Per eliminare la paura ogni maestro dovrà trovare strategie adatte all’età dei discepoli e alla materia. Io per esempio programmo verifiche e interrogazioni in anticipo, solo così diventano un momento di scoperta: non mi interessa scovare ciò che lo studente non sa (capisco subito se ha studiato o no), ma che cosa può scoprire in base a quello che ha studiato (più studia, anche al di là dei compiti, e sa organizzarsi, più la prova lo gratificherà), perché cerco di porre domande feconde per il modo in cui il cervello umano scopre (andando dal noto all’ignoto), domande che non richiedono risposte chiuse da ripetere come io mi aspetto (addestramento), ma invitano a far scoperte che possono spiazzare anche me (spesso ho dovuto arricchire o rettificare ciò che pensavo). Solo così lo studente diventa protagonista del sapere, la verifica diventa un dialogo e la partita dopo tanto allenamento. La paura è sostituita dalla responsabilità, l’ansia dalla curiosità, la fatica dalla sfida. Togliamo la paura da questo mese di scuola, che non è evitare ciò che si deve fare, ma recuperare vite e non solo voti.
Fonte: Corriere.it