«Sarebbe molto facile ripensare all’esperienza del referendum sull’aborto per trarne conclusioni amare o per formulare critiche in varie direzioni». Così inizia l’intenso articolo che Carlo Casini scrisse per Studi Cattolici (n. 245-246, luglio-agosto 1981, pp. 431-435), intitolato “Una strategia culturale”. Ci separano 40 anni da quel 17 maggio che vide il confronto tra il referendum promosso dal Partito Radicale, il quale voleva abrogare le parti della legge 194 che fanno da “filtro” (molto debole) all’aborto volontario, in modo da far uscire allo scoperto l’anima radicale della legge 194, e quello c.d. “minimale” promosso dal Movimento per la Vita che voleva, invece, abrogare le parti più ingiuste della legge mettendola sul binario tracciato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975. Un altro referendum del Movimento per la Vita, il c.d. “massimale”, che intendeva abrogare tutta la legge, fu rigettato dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 26 del 10 febbraio 1981). Conosciamo il risultato: la richiesta del partito radicale ottenne l’11% dei consensi, quella del Movimento per la Vita, il 32%.
Perché ripensare oggi a quell’esperienza? Perché sotto la superficie dell’esito numerico c’erano i semi di un grande rinnovamento civile e politico che deve essere ancora sospinto e realizzato. «Non vi spaventi la difficoltà del compito. Non vi freni la constatazione di essere minoranza. La forza è nella verità stessa e non nel numero», disse qualche anno dopo San Giovanni Paolo II, l’attentato alla cui vita è misteriosamente collegato a quel referendum. Semi che, secondo la nostra responsabilità, possono essere buttati o, viceversa, fatti fruttificare. Non dunque 32% fu il vero esito del referendum che inviava a scrivere “Si” sulla scheda verde, ma “Ricominciamo da 32”.
La tensione per l’impegno referendario era in realtà proiettata nel futuro. Scrisse Casini nell’articolo citato in apertura che il referendum dell’81 non fu «una conclusione, ma un inizio; non una vicenda settoriale, ma l’individuazione degli elementi basilari di una ricostruzione morale e civile oggi così urgente: l’esistere come primo valore, la maternità (quindi la famiglia) come prima solidarietà. In questo contesto, il solo fatto di condurre l’impegno referendario ha affermato la centralità politica del diritto alla vita». Per rendersi conto del significato e della portata del referendum sull’aborto in Italia, bisognerebbe (ri)leggere il libro “La ricomposizione civile dell’area cattolica dopo il referendum sull’aborto” (Editoriale LCA, 1981) ripubblicato da Carlo Casini, con un’ampia introduzione e l’aggiunta di altri testi, per i tipi della Ares nel 2001 a venti anni dal referendum, con il titolo: “Diritto alla vita e ricomposizione civile. 1981: referendum sull’aborto. Riflessioni e risorse per il tempo presente”.
Ci sono vari aspetti positivi di quell’esperienza sui quali dovremmo riflettere per rendere più genuino, saldo e coraggioso l’impegno attuale sul tema della vita nascente come “prima pietra per costruire il nuovo umanesimo”. Sono aspetti dinamici che non hanno età. Leggiamo: «Molti considerano la questione aborto una pietra di inciampo, un elemento di lacerazione. Siamo convinti che non è così. O meglio, è l’aborto che lacera, non è l’affermazione del diritto alla vita. Esso, al di là delle apparenze, unifica la società, così come sono elementi di unione la pace e non la guerra, i diritti umani e non la loro violazione. Viviamo in una società disgregata, satura di violenza. Abbiamo bisogno di riscoprire i valori fondamentali che giustificano il nostro vivere insieme. Abbiamo bisogno di battere la violenza prima di tutto riconoscendo il valore e la dignità dell’uomo, di ogni uomo. Quanto più l’uomo è piccolo, povero, emarginato, tanto più importante è tutelarne i diritti. E chi più del bambino non ancora nato “conta di meno”?
Se vogliamo elevare i meno fortunati tra gli uomini, lottare contro la fame nel mondo, cambiare il nostro modo di affrontare i problemi sociali e politici dobbiamo cominciare da qui: là dove all’inizio della sua esistenza l’uomo vive la povertà assoluta. Queste considerazioni sono valide per tutti. Per i credenti e per i non credenti […] La sua dignità umana e il suo diritto alla vita sono affermati in termini di ragione e la ragione è patrimonio di tutti gli uomini. In questo senso affermare il diritto alla vita non significa dividere, ma – al contrario – unificare» (“Due firme per la Vita”, numero unico del Movimento per la Vita, luglio 1980).
Non sono forse ancora attualissime queste riflessioni? Ancora: «Ciò che ha mosso l’entusiasmo, specialmente dei giovani, è stato anche l’intravedere che la difesa della vita nel seno materno esprime in forma davvero radicale una contestazione dell’attuale società strutturata sulle categorie dell’avere e del fare, e suggerisce una progettualità nuova che vuole porre l’uomo al centro e che quindi privilegia il povero, l’emarginato. Il concepito simboleggia in forma ultima, ogni persona che non conta, ogni uomo che non ha voce. È stata così manifestata l’aspirazione ad una società dell’“essere”, dove vale l’esistere concreto, meritevole di ogni attenzione, al cui rispetto si devono strutturare la cultura, l’economia, le solidarietà sociali» (Una strategia culturale, cit).
Quel referendum per la vita è stata l’occasione per mostrare una partecipazione gratuita e generosa alla vita pubblica, una partecipazione sganciata da interessi e tornaconti personali; un momento di unità culturale del mondo cattolico per difendere il comune (dei credenti e dei non credenti) valore della vita umana come fondamento della comunità civile; l’episodio che ha consentito di proclamare il diritto alla vita come prima manifestazione della dignità umana il cui riconoscimento è condizione affinché la libertà sia libertà e non sopraffazione; la contestazione di una società in cui predominano l’apparire, il fare, l’avere; la dimostrazione che la forza della fede rende più forti le ragioni della ragione; l’occasione per dare robusto basamento ai diritti dell’uomo e autenticità al principio di uguaglianza.
Tutti aspetti di cui c’è tanto bisogno ancora oggi per affrontare le aggressioni contro la vita umana e la famiglia, divenute sempre più frequenti e sofisticate e cercando di fare luce nel buio delle ambiguità, delle menzogne, dei silenzi e delle censure. Si tratta di […] affrontare il duro lavoro che ci attende, senza aver paura di restare sullo “specifico” del diritto alla vita (perché la densità culturale dell’argomento stimolerà spontaneamente un rinnovamento di presenza cristiana e umana anche in altri settori) e affermando una laicità che non ha paura di essere animata principalmente da cristiani. Laddove lo Stato rinuncia a proclamare il valore della vita, i Centri di Aiuto alla Vita dovranno sostituirsi non solo nella assistenza alla maternità difficile, ma anche nella segnalazione pubblica di un valore affidato non più ad un divieto giuridico ma alla testimonianza di un volontariato corale.
Si tratta di approfondire unitariamente quali spazi di presenza la legge 194, in specie nei consultori pubblici, e di occuparli organicamente; di organizzare una seria ed organica presenza nella scuola e nei mezzi di comunicazione sociale; di preparare professionalmente una controinformazione sulla gestione della legge 194 che riproponga tenacemente alle forze politiche il valore centrale del diritto alla vita e ne stimoli il ripensamento; di sostenere gli obiettori di coscienza; di suggerire ed appoggiare una politica della famiglia, della maternità e della donna fondata sulla difesa del figlio e della madre; di mantenere collegamenti con ogni iniziativa e movimento che affermino i diritti umani fondamentali» (Una strategia culturale cit.). Molto, certo, moltissimo è stato fatto. Ma ancora tanto, tantissimo resta da fare. Come scriveva Rostand «Bisogna credere alla luce durante la notte e bisogna costringere l’aurora a nascere».