Sulla base delle analisi contenute in “Viaggio nelle character skills” di Chiosso-Poggi-Vittadini, emerge il possibile profilo di una “scuola del carattere”
Tra i numerosi pregi del testo curato da Chiosso, Poggi e Vittadini, Viaggio nelle character skills (Il Mulino, 2021), vi è certamente la frequente sottolineatura di una visione olistica della persona: “Gli aspetti cognitivi e non cognitivi non sono scollegati, ma costituiscono insieme un tratto globale, che caratterizza il profilo indivisibile e irripetibile della persona umana. Tale tratto non sorge come aspetto al di fuori del processo di apprendimento e delle capacità di prendere iniziative davanti alla realtà, ma è piuttosto il fattore che determina tale capacità di agire, in profonda interrelazione con le conoscenze in senso stretto”. (p. 116)
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L’opportunità di valorizzare e di promuovere le character skills in correlazione con le cognitive skills sana il vizio di quella dicotomia che da Cartesio ha intaccato l’antropologia, come se potesse darsi un atto di conoscenza senza una mossa affettiva dell’io. “Per poter conoscere le cose c’è bisogno di amarle. Uno sguardo di affezione è richiesto anche quando usiamo la nostra intelligenza come mera procedura di calcolo. Questa dimensione affettiva non va intesa però come un’aggiunta ‘sentimentale’ o come un’emozione soggettiva rispetto alla fredda constatazione dei dati oggettivi della realtà. Al contrario, quell’affezione costituisce la motivazione di fondo in ogni atto conoscitivo, un’apertura della nostra mente che cerca il senso delle cose. Possiamo descriverla come una ‘attrazione’ che la realtà esercita sul nostro io, chiamandolo e sfidandolo a un viaggio di scoperta” (C. Esposito, Il nichilismo del nostro tempo. Una cronaca, Carocci 2021).
Al centro di una “character school” vi è dunque una visione dell’io nella sua interezza: l’essere umano è uno, fatto di ragione e di cuore. Per questo tutte le azioni didattiche e organizzative acquistano valore se sono finalizzate alla scoperta del talento di ciascuno. La scuola italiana al contrario è spesso accusata di non saper riconoscere i talenti, di prediligere un modello standardizzato, un percorso per lo “studente medio” e forse anche per questa ragione i tassi di abbandono restano alti nel nostro Paese.
La scoperta e l’accompagnamento alla crescita del talento sono i tratti distintivi di un vero cammino di personalizzazione degli apprendimenti.
Talenti, personalizzazione ed esperienza potrebbero essere le tre parole chiave di una “character school”. L’esperienza è infatti il banco di prova di ogni espressione dell’io, lo studente si mette in azione in “una polarità essere vs. fare, che è fortemente caratterizzante il tema delle competenze non cognitive, considerando gli studenti rispetto al loro essere, ma dall’altra parte anche rispetto a ciò che fanno e sono in grado di fare (…) le competenze non cognitive consentono di performare le identità degli studenti nel mondo reale, attraverso le azioni e i comportamenti, mettendo i valori in azione”. (p. 251)
Ma quale potrebbe essere un sintetico profilo di una scuola che non intenda prescindere dalla centralità del character?
1. Innanzitutto una comunità educante che coltiva la collegialità e la continua formazione, come si ricorda nel testo: “la più decisiva delle policy è rafforzare la capacità educativa degli insegnanti, la loro attitudine a porsi di fronte alla personalità complessiva dei ragazzi, per stimolare la loro passione di conoscere e il loro gusto di dialogare e interagire” (p. 241). Si tratta di sostenere il cammino di apprendimento degli studenti in un’attenzione costante alla personalizzazione, capaci di interpellare e motivare all’apprendimento prediligendo metodologie sfidanti, che rifuggano dalla ripetizione delle conoscenze a favore di un sapere critico e argomentato. Solo una comunità educante contrassegnata da queste caratteristiche sa promuovere la scoperta del talento di ciascuno. Oltre ogni astrazione e generalizzazione la valorizzazione dei talenti individuali è condizione ineliminabile per il successo formativo e per la crescita di un contesto sociale competente e democratico. Solo all’interno di questa cornice si costruisce un vero percorso di orientamento “come un processo educativo continuo, che riguarda tutte le fasi del percorso formativo a partire dalla scuola dell’infanzia”. (p. 156)
2. Una revisione dei curricola in un’ottica che vada oltre il rigido disciplinarismo che rischia di contaminare anche i primi gradi dell’istruzione. La scuola del character, per esempio nel primo ciclo, pone al suo centro la realizzazione di quanto contenuto nel profilo finale dello studente secondo le Indicazioni nazionali e quindi promuove la capacità di argomentare, di risoluzione dei problemi, di pensiero critico e riflessivo… in sinergia con le non cognitive skills. I curricoli si liberano allora dalla tentazione dell’enciclopedismo e ritrovano priorità che costituiscono lo scheletro di un apprendimento per tutta la vita. Il testo nella parte dedicata alla sperimentazione trentina documenta con dovizia di particolari esperienze didattiche capaci di coniugare l’apprendimento sinergico di cognitive e non cognitive skills. Non va trascurata, a proposito di curricola, la possibilità di pensare a un curricolo verticale delle non cognitive skills, con particolare attenzione alla scuola dell’infanzia, momento in cui comincia a strutturarsi la personalità del bambino e in cui appare con assoluta evidenza il nesso vitale tra apprendimento ed esperienza.
3. Il superamento della valutazione intesa come misurazione, al cui centro sta il totem della media matematica. Si tratta di una tentazione, che, seppur sconfessata dalla pedagogia e dalla riflessione didattica, persiste ancora come abitudine nelle scuole e viene spesso evocata durante gli scrutini, con il mantra della media matematica elaborata dal registro elettronico. Occorre invece favorire la dimensione formativa della valutazione, capace di andare oltre qualsiasi tentazione di controllo, di attestare un cammino di conoscenza, non sottolineando innanzitutto ciò che manca, ma dando valore a ciò che c’è. Una prassi valutativa che non si limita a prendere in considerazione il prodotto, ma che si sofferma sul processo e quindi non può tralasciare l’osservazione delle non cognitive skills. In questo dinamismo valutare è offrire in continuazione feedback agli studenti, mettendo in luce i punti di forza e di debolezza del loro percorso di apprendimento, educando dunque all’autovalutazione e favorendo l’interiorizzazione di processi metacognitivi.
4. Un Piano dell’offerta formativa in cui le diverse progettualità siano articolate attorno a priorità chiaramente identificate e con esplicito riferimento alle competenze non cognitive. “In questa tipologia di progetti rientrano per esempio percorsi di personalizzazione della didattica e di inclusione (in base alle ‘intelligenze multiple’ degli studenti) tipici del primo ciclo di istruzione; oppure percorsi nell’ambito della sostenibilità ambientale, come i comportamenti per la gestione e lo smaltimento dei rifiuti, oppure percorsi sulle competenze emotive e sociali, anche in un’ottica orientativa”. (p. 249)
5. Una scuola che si faccia carico e a cui venga riconosciuta una reale autonomia e che viva fortemente l’interazione con il territorio in cui è inserita. Un processo che ha al suo centro l’educazione della persona nella sua interezza non può prescindere dall’interagire e dal valorizzare tutte le risorse presenti sul territorio. In questa prospettiva va inserito anche l’insegnamento-apprendimento dell’educazione civica che “non può che essere trasmessa fortificando le non cognitive skills: nel senso che la trasmissione dei contenuti che si selezionano deve avere di mira la costruzione della persona, come scoperta dell’io in relazione al mondo”. (p. 203)
La riflessione sulle character skills e sul loro rapporto con la scuola è solo all’inizio e anche le note sopra riportate sono osservazioni parziali che richiedono approfondimenti e integrazioni da costruire nel prossimo futuro, nella consapevolezza che non si dà istruzione senza educazione, non c’è apprendimento che persista nel tempo se non a partire da un’antropologia che consideri l’io come persona libera che vive il paragone con il reale mossa da una ragione permeata d’affetto.
Le character skills saranno allora generatrici di comportamenti stabili nel tempo, come insegnava già Aristotele nell’Etica Nicomachea: “Le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra. Ebbene, così anche compiendo azioni giuste diventiamo giusti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose coraggiosi”.
Fonte: Nora TERZOLI | IlSussidiario.net