Il suo cervello è rimasto privo di ossigeno per una complicazione dopo una banale operazione sei mesi fa. Ora i genitori chiedono di «staccare la spina»
Una banale operazione a un ginocchio, che certo non lasciava presagire la tragedia. L’aveva affrontata serenamente, Samantha D’Incà, 30enne veneta di Feltre, lo scorso novembre, forse più preoccupata di dover frequentare un ospedale nei giorni della seconda ondata Covid che di quel piccolo intervento. Invece a causa di una complicazione il suo cervello è rimasto per qualche secondo privo di ossigeno e la giovane donna, ricoverata all’ospedale San Martino di Belluno, è entrata in quel limbo misterioso che la scienza chiama di “minima coscienza” e del quale ben poco sappiamo. Così poco che le antiche definizioni (“coma irreversibile”, “stato vegetativo” ecc.) sono ormai da tempo cancellate: anni di ricerche seguite al triste caso di Eluana Englaro, la cui morte è stata provocata in modo particolarmente drammatico e doloroso nel 2009, hanno chiarito che di “irreversibilità” non si può più parlare e che una consapevolezza (coscienza) può essersi conservata anche nel soggetto apparentemente più inattivo.
Ma, proprio come avvenne per Eluana, anche attorno a Samantha si è ora accesa una battaglia legale che vede da una parte i genitori della donna, convinti di dover “staccare la spina” e “accompagnare alla morte” la figlia, dall’altra i medici, il Comitato etico dell’Ulss bellunese e il giudice tutelare della paziente, che per diversi motivi non ritengono lecito nel suo caso attivare il percorso di fine vita. Sono solo sei mesi che Samantha è in stato di minima coscienza, un tempo che, come dimostra una casistica ormai ampia di recuperi e “risvegli” più o meno eclatanti, è troppo breve per dire se potrà migliorare, eppure i genitori sembrano aver perso ogni speranza. Come sempre accade in questi casi, paura e disperazione si accompagnano alla solitudine cui la famiglia si trova a far fronte: “Il nostro obbiettivo è di lasciarla andare – dichiara il padre Giorgio d’Incà, meccanico di Arsiè, che non si rassegna alla decisione del tribunale di Belluno –. La nostra vita ormai è rovinata. Samantha sarà per sempre nel nostro cuore, ma che abbia pace. Nella nostra istanza era allegata una consulenza redatta dal neurochirurgo altoatesino Leopold Saltuari, secondo il quale con una riabilitazione di alcuni mesi nostra figlia avrebbe potuto al massimo arrivare a stare seduta e a deglutire da sola. Ma tutti gli istituti interpellati dall’azienda sanitaria di Belluno hanno rifiutato di prenderla in carico”. Solitudine e mancanza di assistenza di alto livello, appunto. Perché riportare un paziente come Samantha a deglutire non è, come potrebbe sembrare, un traguardo di poco conto, ma il primo fondamentale passo verso un potenziale ritorno a una vita normale. Proprio dal recupero della deglutizione, ad esempio, è passato il “ritorno” di Max Tresoldi, il giovane lombardo risvegliatosi dopo 10 anni (“dieci anni in cui io sentivo tutto e temevo che mi lasciassero morire”, racconta oggi).
L’ennesima storia di dolore e di dubbi, dunque, che però una differenza fondamentale dai casi del passato ce l’ha: ormai la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento c’è (la 219 del 2017), ed è stata fortemente voluta proprio per evitare i lunghi contenziosi come nel caso della Englaro e perché non si potesse mai più eutanasizzare una persona a prescindere dalle sue volontà dichiarate. “Mai più un’altra Eluana”, si era detto. Ma Samantha non ha dichiarato una volontà di morire o il rifiuto delle cure dovute, dunque secondo il tribunale gli estremi per applicare la legge 219 non ci sono.
Giorgio D’Incà, che attende un nuovo pronunciamento giudiziario, non è affiancato come Max Tresoldi dallo stuolo di volontari che ogni giorno lo hanno riabilitato e stimolato alla ripresa, ma dall’associazione “Luca Coscioni”, molto impegnata nel fine vita: “Dal punto di vista giudiziario abbiamo già seguito precedenti vittoriosi – dichiara all’Ansa il tesoriere Marco Cappato – E’ normale per la legge non accogliere subito l’istanza se non c’è un testamento biologico… ma questa cosa può essererisolta sulla base delle battaglie vinte in precedenza”. Ancora più esplicita l’avvocata e segretaria dell’associazione, Filomena Gallo: “In altri due casi abbiamo ricostruito la volontà degli assistiti tramite la testimonianza di parenti e amici…”.
Noi non abbiamo visto Samantha, non sappiamo se sia “attaccata alle macchine” come si scrive da giorni (lo si scriveva anche di Eluana, che invece viveva di vita autonoma e non era attaccata ad alcuna “spina”), sappiamo solo che al San Martino riceve nutrimento e idratazione come ogni paziente. Ma anche che – lo dice il padre – nessuno degli istituti interpellati nel Bellunese vuole prendersi carico della sua assistenza, come invece per anni a Lecco avevano fatto le suore della clinica “Beato Talamoni” per Eluana.
Intanto da Udine si riparla dell’anestesista rianimatore Amato De Monte, tristemente noto nel 2009 per aver guidato l’équipe che alla “Quiete” di Udine diede la morte alla Englaro togliendole cibo e acqua: da poco promosso a direttore della Sores (Sala operativa regionale per l’emergenza sanitaria) con una procedura molto discussa, non si è mai voluto vaccinare contro il Covid. Una condotta che ha indignato i colleghi e i sindacati che rappresentano il 70% dei dirigenti medici e sanitari del Friuli Venezia Giulia: “Tollerare questa situazione è un atto offensivo nei confronti di tutti i colleghi e i cittadini – dicono al presidente regionale Fedriga –. De Monte starebbe aspettando un ‘nuovo vaccino’? E’ inammissibile che professionisti sanitari possano liberamente dichiarare di non volersi vaccinare con i vaccini attualmente disponibili”, quelli validati dalla scienza.
Fonte: Lucia BELLASPIGA | Avvenire.it