«Lei era musulmana, ma non si comportava come tale. Nel nostro Corano c’è scritto che se una smette di essere musulmana, deve essere sepolta viva con la faccia fuori dalla terra e poi uccisa con lancio di sassi contro la testa. Nel corano c’è scritto così, ma io non l’ho mai visto. Tutti i parenti mi raccontano questa cosa». Basterebbero queste parole così nette pronunciate dal fratello di Saman – sempre un ragazzino di 16 anni – un po’ spaventato ma sicuramente sincero, a delineare il contesto in cui Saman è cresciuta e infine ha trovato la morte. Sono dichiarazioni importanti, perché non dichiarate da un islamofobo, ma da un giovane ragazzo pakistano che stava crescendo in Italia seguendo usi, costumi e a quanto pare, un’interpretazione del Corano, certamente non rassicurante.
Com’è stato possibile? È una domanda che ci siamo fatti tante volte anche quando abbiamo assistito a eventi terroristici inquietanti dove l’alibi della fede era centrale. Rispondere con onestà non è stata sempre la strada preferita, un po’ per orgoglio, un po’ per paura ma anche per tanta confusione trovandosi al centro di un qualcosa di veramente grande e complesso.
L’Islam non è questo ci si è giustamente difesi, con una levata di scudi, anche per contrastare la superficialità e il pregiudizio che ogni volta prendono il sopravvento, quando ci sono di mezzo minoranze come quella islamica. Ma fatta questa parte non si può non ammettere che quando si
manifestano eventi orrendi e spaventosi per la loro crudeltà, è anche grazie alle ambiguità che persistono ancora nel mondo islamico su letture e pratiche aberranti che suscitano nell’animo quel senso di orrore e ribrezzo – ma tocca ammetterlo – sono protette da un muro di omertà che si è fatto così alto nei secoli dagli intransigenti radicali, estremisti e letteralisti che proprio da quel testo, il Corano, si sentono legittimati e protetti.
Parlare di questo significa incolpare l’Islam e tutti i musulmani? Certamente no, perché per fortuna la comunità musulmana mondiale è una pluralità di anime, ma nonostante questo non è riuscita ancora a immunizzarsi da un modo di pensarsi al mondo come individui, ingiusto, discriminatorio e illiberale. Per questo, che ogni musulmano per bene è consapevole quanto è sempre più urgente far suonare la campana, perché non è più il tempo dell’autodifesa, l’orgoglio come musulmani, ma quello dell’autocritica coraggiosa e sincera. Perché di problemi in casa islamica ci sono eccome. La continua e persistente autodifesa vista anche in questi giorni da molti esponenti islamici non fa altro che immobilizzare un dibattito fermo non solo nei Paesi islamici ma drammaticamente anche in un Paese occidentale e democratico come il nostro. Il delitto di Saman è certamente un femminicidio ma mette al centro, non solo la questione delle libertà delle donne, ma anche la libertà di essere o meno musulmani che diventa reato di apostasia nei Paesi musulmani e in altri da pagare con la morte. Dietro ai matrimoni forzati, la ghettizzazione delle ragazze e la loro segregazione c’è la fobia dei padri, e dei musulmani di trovarsi la figlia sposata con un “infedele”, unione proibita con la legge in tutti i Paesi islamici, a parte la Tunisia.
Ecco, quanto accaduto a Saman, non può e non deve sfumare in un fatto di cronaca, ma servire come spunto per l’Islam organizzato italiano nel fare quel passo avanti che ancora non si è fatto. Più che una fatwa, per confermare l’ovvio – e cioè che l’Islam condanna i matrimoni forzati – è più
urgente andare alla radice dei problemi, ancor più quando ci si dichiara rispettosi della costituzione italiana. Ciò significa esporsi con dichiarazioni chiare su apostasia, matrimoni misti, diritti degli omosessuali, solo per fare qualche esempio. Sono queste le sfide per le libertà e i diritti, dove il mondo musulmano è ancora al palo. Fin quando non verranno affrontate senza ambiguità, continueremo a essere sempre ostaggio del primo integralista che passa, perché secondo lui, c’è scritto nel Corano, e di un islamofobo che non vede l’ora di farsi grande discriminando e odiando l’altro, solo perché diverso.
Fonte: Karima Moual | LaStampa.it