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L’eutanasia inizia a fare paura ai medici

Dopo aver visto i colleghi finire alla sbarra nel processo Tine Nys, i dottori belgi sono riluttanti a dare la morte assistita. E in Canada gli psichiatri si ribellano a fornire l’eutanasia ai loro pazienti.

Dopo aver visto tre colleghi finire alla sbarra, imputati nel processo sulla morte di Tine Nys, i medici belgi sono riluttanti a dare l’eutanasia. Soprattutto ai pazienti psichiatrici e in caso di familiari contrari.

Lo attesta un sondaggio condotto tra i medici che hanno frequentato il Leif (LevensEinde InformatieForum), corso per formare operatori sanitari su fine vita ed eutanasia. Solo 5,5 medici su 10 sarebbero pronti a erogare in prima persona la morte assistita: prima del processo Nys erano 7 su 10. E solo 2 su 3 sarebbero pronti a rilasciare un parere per avviare la procedura: prima del processo erano 3 su 4. I favorevoli sarebbero inoltre propensi a chiedere il consenso dei parenti prima di procedere e ad agire con prudenza in caso di pazienti con malattie mentali, non sentendosi in grado di valutare adeguatamente la sofferenza psichiatrica.

I medici riluttanti all’eutanasia

Non si tratta affatto di numeri banali in un paese che da 19 anni promuove incessantemente il diritto a uccidersi tanto da non riuscire ad arrestare il boom di suicidi “non autorizzati” dallo Stato. Dove il Parlamento propone una legge per ammazzare chi ritiene ormai di avere vissuto troppo a lungo (in Olanda la chiamano “morte per vita compiuta”) e dove basta avere molti acciacchi dovuti all’età per ricevere l’iniezione letale. Non è banale in un paese che un anno fa ha modificato la normativa sull’eutanasia, obbligando i medici a indirizzare pazienti che non hanno intenzione di sopprimere a “centri specializzati” in consulenza e pratica della morte assistita. Proprio come il Leif.

La riluttanza dei medici in generale è stata confermata anche da Wim Distelmans, pioniere senza scrupoli della morte assistita e presidente della Commissione per il controllo dell’eutanasia: «Triste tendenza», ha detto del numero crescente dei colleghi che negli ultimi mesi stanno frenando sulla retorica della morte dignitosa.

Il caso di Tine Nys fa paura

Paura di contenzioni o presa di coscienza, il fatto è che il caso di Tine Nys ha guastato la retorica di Distelmans. Per la prima volta nella storia del Belgio tre medici sono finiti a processo per avere ucciso una 38enne dopo averle diagnosticato frettolosamente la Sindrome di Asperger. Tempi aveva raccontato la sua storia qui: la donna ha ricevuto l’eutanasia il 27 aprile 2010 grazie a tre dottori. Il medico curante, “ricattato” da un suo tentativo di suicidio; la psichiatra Lieve Thienpont, la stessa che autorizzò la morte di Godelieva De Troyer; e il dottor Joris van Hove, che praticò l’iniezione letale. E che ammise, una volta trascinato in tribunale dai parenti di Nys, di non essere qualificato, di aver compiuto errori e di aver paragonato l’eutanasia della paziente a quella di un animale.

Assolti penalmente, la Cassazione ha ordinato un nuovo processo a carico di van Hove. Un processo civile per stabilire il risarcimento alla famiglia in corso a Dendermonde e che ha portato un medico su cinque della Leif a cambiare la sua posizione sull’eutanasia.

La banalizzazione del suicidio

Secondo il Rapporto 2020 della Commissione a novembre si contavano già 22.081 casi di eutanasia dichiarati “ufficialmente”, cinquemila solo nel biennio 2018-2019, somministrate nel 45 per cento dei casi dai medici di base nelle abitazioni private. Medici come van Hove, che uccise Tine Nys chiedendo al padre della ragazza di tenerle l’ago conficcato nel braccio e a un altro membro della famiglia di verificare con lo stetoscopio che il suo cuore si fosse fermato.

Oltre un centinaio di queste cinquemila vittime erano affette da disturbi mentali e comportamentali. Come Nys non erano prossime alla morte ma nella stragrande maggioranza dei casi erano affette da demenza o depressione, nevrosi e autismo. Secondo la Commissione «i tentativi di suicidio falliti hanno reso gli interessati consapevoli del fatto che esiste un altro modo, più dignitoso, di porre fine alla propria vita». Ora i medici – è appena uscita una antologia curata da professionisti del settore che denunciano, attraverso le storie dei pazienti, la banalizzazione del suicidio e si appellano ai colleghi per opporsi alle derive dell’eutanasia – iniziano a farsi delle domande. O almeno a tirarsi indietro.

Canada, record di eutanasia

Qualcosa di simile sta accadendo tra gli psichiatri in Canada. Sono appena usciti i dati del 2020 che attestano un incremento del 17 per cento dei casi di eutanasia e suicidio assistito rispetto all’anno precedente. Qui lo scorso anno 7.595 persone hanno ricevuto la morte da un medico, il 2,5 per cento di tutti i decessi che si sono contati in Canada. Nel 2019 erano 5.631, il 2 per cento dei decessi del paese. E non ha ancora dispiegato i suoi effetti la legge C-7 che dal mese di marzo ha eliminato il requisito di una «morte naturale ragionevolmente prevedibile» per ottenere il farmaco letale.

«Una maggiore consapevolezza e una maggiore accettazione da parte dei canadesi del Maid (Medical Assistance in Dying, ndr) come opzione di fine vita ha portato a una crescita costante di decessi medicalmente assistiti dal 2016», ha proclamato Abby Hoffman. Il portavoce del viceministro alla Sanità canadese ha aggiunto che delle 9.300 persone che avevano presentato domanda di eutanasia, il 79 per cento l’ha ottenuta. Come si trattasse di un record felice da implementare con l’estensione del diritto di morire anche a disabili cronici e malati psichiatrici.

Dal “caso Truchon” ai depressi

La legge C-7 è stata approvata dopo la sentenza, in Quebec, sui casi di Nicole Gladu e Jean Truchon, due cittadini che non erano in fin di vita. Un giudice della Superior Court aveva deciso di invalidare nel 2019 i requisiti delle norme federali: concedere l’eutanasia solo a chi era affetto da una malattia incurabile avrebbe discriminato chi, come Truchon (che soffriva di sindrome post-poliomielitica), era costretto a vivere una vita che non aveva più senso per lui.

Truchon ha ricevuto l’eutanasia ad aprile 2020. Un anno dopo il Canada approvava la nuova legge con un emendamento per aprirla entro 18 mesi anche a depressi e malati mentali. Una legge accolta tra gli applausi del paese dove la filosofia “uccidiamoli così non dovranno suicidarsi” sembrava trovare d’accordo tutti.

“Fornire suicidi per impedirli”

Tutti tranne i medici di questi pazienti. In un lungo intervento sullo Psychiatric Times Mark S. Komrad (psichiatra e docente al Sheppard Pratt Hospital, Johns Hopkins Hospital di Baltimora, Università del Maryland e Tulane University di New Orleans) si è scagliato contro la ratio letale della legge canadese. Che al pari di quella belga e olandese punta a fornire il suicidio ai malati psichiatrici piuttosto che impedirlo.

Komrad si chiede come si è passati dalla posizione dell’American Psychiatric Association (espressa nel 2016, «uno psichiatra non dovrebbe prescrivere o somministrare alcun intervento a una persona non terminale allo scopo di causare la morte») a quella della Canadian Psychiatric Association intervenuta nel dibattito sulla C-7 lo scorso anno: «I pazienti con una malattia psichiatrica non dovrebbero essere discriminati esclusivamente sulla base della loro disabilità e dovrebbero avere a disposizione le stesse opzioni per quanto riguarda il Maid a disposizione di tutti i pazienti».

Gli psichiatri contro l’eutanasia

A preoccupare Komrad è proprio la china presa da Belgio e Paesi Bassi. Dove dopo l’eutanasia per chi è stanco di vivere o ritiene di aver vissuto abbastanza, si discute la “demedicalizzazione” con l’erogazione di farmaci letali da banco. Una preoccupazione condivisa dalle Nazioni Unite , dai vescovi cattolici, dall’American Medical Association e dalla World Medical Association.

Soprattutto da medici come Sonu Gaind, ex presidente della Canadian Psychiatric Association, da esperti di diritto e sanità canadese che si sono espressi sul capovolgimento del concetto di cura. E da colleghi come John Maher, direttore del Journal of Ethics in Mental Health. Che qualche mese fa raccontava:

«Pochi giorni fa, una paziente di 30 anni con una malattia mentale molto curabile mi ha chiesto di porre fine alla sua vita. I suoi genitori sconvolti sono venuti all’appuntamento con lei perché avevano paura che potessi sostenere la sua richiesta e che non avrebbero potuto fare nulla al riguardo. È orribile che debbano preoccuparsi che andando da uno psichiatra, la loro figlia possa essere uccisa da quello stesso medico».

Fonte: Caterina Giojelli | Tempi.it

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