Prevenire e contrastare il manifestarsi di discriminazione e/o violenza nei confronti di qualcuno a motivo della sua disabilità o del suo modo di vivere la sessualità, sono obiettivi doverosi: è dunque del tutto legittimo domandarsi se queste persone siano adeguatamente tutelate a livello sociale e interrogarsi su come rendere più efficace questa tutela anche a livello legislativo.
Ma se una legge intende allargare la questione a quale sia il modo più giusto ed efficace per educare i nostri figli a un vero rispetto di tutte le differenze, credo sia altrettanto doveroso porsi almeno due questioni, che sono centrali ogni volta che si affronti una problematica educativa rilevante. La prima questione riguarda la necessità di esplicitare quale sia il modello antropologico cui intendiamo fare riferimento; l’idea che possa esistere una relazione educativa ‘neutra’ è infatti un’idea del tutto astratta: la posizione del bambino rispetto all’adulto è sempre una posizione asimmetrica, che comporta in quanto tale rilevanti elementi di influenzamento. La domanda educativa è dunque: in che direzione riteniamo sia bene orientare i nostri figli? A quali valori facciamo riferimento? A quale idea dell’uomo, della vita, delle relazioni crediamo e ci ispiriamo?
La società occidentale ha finora avuto come riferimento ideale il modello antropologico cristiano, fondato sul valore centrale della persona: un riferimento ideale, molte volte tradito e disatteso, ma non per questo superato. Chi si ispira all’antropologia cristiana non può che difendere sempre e comunque la vita e la persona: la vita di chi rischia di annegare nel tentativo di raggiungere le nostre coste, così come la vita del bambino che rischia di venire ucciso nel grembo della madre. Non c’è, per il cristiano, un valore minore nella vita del vecchio, del disabile, dello straniero, del bambino non ancora nato, del morente, dell’omosessuale o del transessuale: ogni vita ha una preziosità assoluta e merita sempre cura e pieno rispetto.
Ma il modello antropologico cristiano non si limita ad affermare con forza il valore intangibile di ogni vita, perché, riflettendo nel corso dei secoli sul messaggio ricevuto, entra anche nel cuore di ciò che significa essere persona, e fin dalle origini ci indica la somiglianza con il Creatore in due caratteristiche umane fondamentali e tra loro inscindibili: essere persone sessuate ed essere persone in relazione. Il valore del maschile e del femminile, la loro differenza, la loro reciprocità, sono elementi fondanti ma ancora non sufficientemente esplorati dell’antropologia cristiana; purtroppo non siamo finora stati capaci di comprendere e vivere a pieno queste realtà: abbiamo dato troppe cose per scontate e ne abbiamo impoverito la forza dirompente, togliendo poco alla volta la carica rivoluzionaria che contengono.
La visione antropologica cristiana, che ha ispirato finora anche se in modo imperfetto il nostro modo di intendere le relazioni, ha dunque ancora molto da dire sull’uomo, sulla donna, sulla loro specificità, sulla loro relazione; non può venire liquidata senza un confronto aperto e approfondito, e neppure venire semplicemente ignorata. L’articolo 1 del ddl Zan, che definisce all’interno di una legge cosa si debba intendere per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, mostra di aggirare in modo grave e non innocente la questione: senza dichiarare apertamente quale sia la visione antropologica cui fa riferimento, attraverso questa modalità apparentemente pragmatica liquida in modo affrettato il modello cristiano, riuscendo ad evitare così un aperto e schietto confronto delle idee.
Anche l’articolo 7 e 8, relativi alle strategie di prevenzione e contrasto alla discriminazione, si inseriscono in questa impostazione che dà per scontato ciò che non lo è, prevedendo di introdurre nelle scuole di ogni ordine e grado una formazione orientata a una visione non dichiarata e non sufficientemente discussa. Questo apre però anche alla seconda delle questioni in gioco: oltre a dichiarare gli obiettivi e a collocarli in una visione antropologica condivisibile, formulare programmi educativi richiede una conoscenza approfondita dell’età evolutiva: una conoscenza ad ampio raggio, che comprenda le caratteristiche cognitive di ogni età, il compito evolutivo specifico di ogni fase dello sviluppo, le dinamiche affettive del bambino e dell’adolescente, anche per quanto riguarda il modo in cui ogni età può confrontarsi nel modo migliore con il tema della differenza sessuale e con il tema dell’identità.
Come neuropsichiatra infantile ho studiato a lungo le dinamiche dell’età evolutiva e ne conosco la delicatezza e la complessità; so dunque, non solo per studio ma anche per esperienza, che parlare di sesso con i bambini richiede come premessa una conoscenza approfondita delle differenze che esistono tra l’adulto e il bambino: come già sottolineava Anna Freud nei suoi testi, tra bambino e adulto ci sono differenze qualitative cruciali, che si fanno particolarmente evidenti proprio in relazione al modo in cui i bambini concepiscono la differenza sessuale e tutto ciò che concerne la vita sessuale in genere. Chiunque abbia dimestichezza con il pensiero infantile sa bene che prima della pubertà il bambino non è in grado di comprendere il significato della sessualità adulta: il pensiero infantile è un pensiero concreto, realistico, basato sull’esperienza; è un pensiero ego-centrico, che non è in grado di immaginare ciò di cui non può fare esperienza e dunque costruisce sulla sessualità delle proprie teorie, fortemente resistenti ad ogni spiegazione e logica adulta.
La sessualità del bambino è pregenitale; il desiderio sessuale, per come noi lo conosciamo, gli è del tutto ignoto e gli organi sessuali sono per lui collegati in maniera inestricabile con le funzioni escretrici. Proprio per questo, il contatto precoce con la sessualità degli adulti è per il bambino un’esperienza molto disturbante: il sesso adulto lo eccita e insieme lo spaventa e lo confonde, creando spesso vissuti di tipo traumatico, come ben sa ad esempio chi si occupa di minori esposti alla pornografia. La mente del bambino è inoltre una mente che ha bisogno di ordine: orientarsi nella complessità è un compito adulto, che può essere affrontato più facilmente quando si parte da basi sicure. Ma proprio per la concretezza del suo pensiero, niente è per il bambino più sicuro e verificabile dell’esperienza del proprio corpo, così come concretamente si presenta: corpo che si specifica solo al maschile o al femminile, facilmente distinguibili grazie ai loro attributi genitali. Maschile e femminile che sono differenti, e la cui differenza ha come scopo la possibilità di generare.
Per questo, presentare la sessualità come un vissuto puramente soggettivo o come un continuum fluido che sfugge a ogni definizione rischia di essere per lui solo fonte di grave ansia e preoccupazione: se non è più possibile ancorarsi alla realtà di ciò che si percepisce, il mondo diventa infatti un luogo nel quale orientarsi con sicurezza diventa molto difficile. Per tutti questi motivi, credo che prima di introdurre per legge protocolli educativi sull’identità di genere sia indispensabile fermarsi a riflettere e ascoltare con attenzione la voce di coloro che, pur avendo a cuore la tutela da ogni possibile discriminazione, non si rassegnano a scorciatoie affrettate e pericolose: torniamo ad allargare lo sguardo, a contestualizzare le nostre decisioni, a discutere senza pregiudizi, e chiediamoci quale tipo di uomo e di donna vogliamo indicare ai nostri figli come modello per una felicità possibile.
Neuropsichitra infantile e psicoterapeuta
Fonte: Mariolina Ceriotti MIGLIARESE | Avvenire.it