Istituisce il reato di opinione, incide sulla libertà di associazione e di educazione, contiene caratteri tipici dello Stato etico. L’efficace contributo di Esserci alle audizioni in Commissione Giustizia su una legge che non produce diritti, solo ideologi.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo di Esserci alle audizioni in Commissione Giustizia in Senato sul ddl Zan
Chia.mo Presidente, ill.mi Senatori, ringraziamo la Commissione Giustizia del Senato per l’opportunità offertaci di dare il nostro contributo alle audizioni sui disegni di legge n. 2005 e n. 2205, perché sede di un esemplare dibattito democratico.
Come associazione culturale impegnata nel costruire occasioni pubbliche di riflessione e confronto su tematiche di attualità, che possono implicare anche risvolti politici, vorremmo porre l’attenzione sui rischi insiti nel disegno di legge n. 2005, poiché istituisce il reato di opinione, incide sulla libertà di associazione e di educazione, contiene caratteri tipici dello Stato etico. Aspetti non riscontrabili invece nel ddl n. 2205.
Premesso che nessuna forma di violenza e discriminazione può essere tollerata, riteniamo che il testo del ddl Zan, come viene ormai comunemente chiamato, vada ben oltre l’intento di frenare forme di violenza e discriminazione. La persona, senza distinzioni (art.3 Cost), è già tutelata dall’ordinamento italiano. Nessun caso di cronaca di quelli portati a supporto della necessità di una legge ad hoc per inserire una protezione aggiuntiva verso alcune categorie sociali è restato impunito, a dimostrazione che adeguate tutele esistono; né le statistiche Oscad rilevano un’emergenza che giustifichi un intervento normativo specifico (transfobia 1 per cento). Se tuttavia il Parlamento intende adottare un’integrazione normativa per contrastare maggiormente i reati a sfondo omotransfobico, è opportuno che la legge si limiti a perseguire tale fine e non utilizzi il piano penale per incidere su quello culturale. Sul pericolo di una deriva verso lo Stato etico si è ben espresso il prof. Francesco Botturi in audizione l’8/6/2021.
Il ddl Zan non istituisce nuovi diritti per le persone afferenti alle comunità Lgbt, come erroneamente si sente affermare, né tantomeno per i disabili, ma aumenta le fattispecie penali in cui possono incorrere tutti i cittadini, in forma individuale o associata; è fondamentale perciò che siano rispettate le caratteristiche di tassatività e determinatezza della norma penale.
È necessario che il legislatore espliciti quali sono le condotte legittime e quali quelle discriminatorie, come già richiesto dal Comitato per la legislazione e dalla Commissione Affari Costituzionali alla Camera: «provveda la Commissione di merito a chiarire maggiormente i confini tra le condotte discriminatorie fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, al fine di evitare incertezze in sede applicativa».
Il legislatore ha trasposto con approssimazione in ambito giuridico nozioni e definizioni attinte dall’ambito medico o dalle Scienze umane. Le definizioni contenute all’art.1 sono foriere di ampie e divergenti interpretazioni. In merito rinviamo al contributo fornito a codesta Commissione dal prof. Giancarlo Cesana in data 15/6/2021.
A proposito delle implicazioni socio-antropologiche e culturali della definizione di identità di genere assunta dall’art.1.3, per non ripeterci rispetto a chi ci ha preceduto, concordiamo con le osservazioni già presentate a codesta Commissione dalla dott.ssa Marina Terragni e dalla prof.ssa Assuntina Morresi.
Suscita preoccupazione la scelta di introdurre nell’ordinamento la tutela giuridica dell’autodeterminazione soggettiva dell’identità, perché configura una scelta culturale ben precisa dello Stato, che cristallizza definizioni ancora oggetto di confronto scientifico e avalla un andamento culturale divenuto già quasi egemonico per la forza esercitata dai media, con l’effetto di marginalizzare posizioni culturali diverse e viziando il confronto sereno e approfondito sui temi antropologici.
Molto è stato detto sui rischi per la libertà di manifestazione del pensiero introdotti dall’art.4, in violazione dell’art. 21 della Costituzione. Rinviamo a quanto esplicitato in audizione dal giudice Alfredo Mantovano, ricordando inoltre le ampie tutele internazionali per questo diritto umano inviolabile, che potrebbero prefigurare ricorsi anche in sedi sovranazionali.
Rispetto all’articolo 2 del ddl Zan, in combinato disposto con l’art. 4, ci preme evidenziare che si configura una concreta limitazione alle libertà di associazione (art.18 Cost) e di espressione (art.21 Cost.), che sono a fondamento delle associazioni culturali. Non appare affatto pacifico che si possa estendere tout court la copertura della Legge Mancino alle categorie indicate all’art.1, poiché il confronto scientifico e culturale sui cosiddetti “nuovi diritti” e le loro implicazioni antropologiche e sociali è ancora assolutamente aperto.
La legge Mancino-Reale è stata controversa fin dal suo inserimento nell’ordinamento, poiché introduce un reato senza il fatto. Ingloba la norma del 1975 che recepiva la Convenzione Onu sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1969 e la Legge Scelba che vietava l’apologia di fascismo. All’epoca i sostenitori si muovevano in un contesto di convinzione unanime che il razzismo e l’antisemitismo fossero un disvalore e questo ha giustificato l’eccezione introdotta dalla legge. Ben diversa è la condizione dell’applicazione della Mancino-Reale oggi per ipotetiche discriminazioni sulla base di opinioni e posizioni culturali relative ai temi antropologici, valoriali e socio-politici, che rappresentano convinzioni diverse ma pur sempre legittime e che devono liberamente confrontarsi per la costruzione della società attuale e futura.
I reati d’odio previsti all’art. 2 hanno un sentimento soggettivo come movente, le manifestazioni del pensiero secondo l’art. 4 possono diventare reato per il solo “pericolo concreto” di indurre a discriminazioni. La condizione paradossale che la norma descrive è che senza il motivo d’odio la condotta o le espressioni verbali sarebbero lecite e senza pericolo le idee sarebbero legittime. Ergo, la liceità di una affermazione si potrà verificare solo dopo una denuncia, che può partire anche d’ufficio, e sarà solo il giudice a valutare se il motivo intimo era l’odio oppure no, se le parole erano pericolose o meno. Su questo crinale passa la libertà o la reclusione di un cittadino inconsapevole. Il giudice avrà massima discrezionalità, in palese la violazione dell’art. 25 della Costituzione. Il legislatore sembra in tal modo voler usare l’arma della sanzione penale, non come ultima ratio per punire reati contro la persona, ma per trasferire il confronto dal terreno del dibattito pubblico alla sede penale, che, a prescindere dall’esito, è già una condanna, oltre al peso della gogna mediatica e sociale che colpisce chi sia oggi tacciato di omofobia.
Premesso che nessuna associazione ha nel proprio statuto “l’incitamento alla discriminazione o alla violenza” verso specifiche categorie di persone, come invece avveniva quando fu stipulata la Convenzione di New York recepita dalla legge Mancino ed era attivo ad esempio il Ku Klux Klan, vorremmo capire dal legislatore quali sono i requisiti che un’associazione deve avere oggi per essere legittima ai sensi dell’art. 2 del ddl Zan, dal momento che i membri rischiano fino a 4 anni di carcere e i responsabili fino a 6 anni per il solo fatto di appartenervi.
Vorremmo altresì chiedere ai Senatori, quali sono i rischi in cui incorre un’associazione culturale che ha tra i propri scopi creare occasioni di confronto come contributo al dibattito pubblico. L’associazione risponde per quanto detto dai relatori invitati? La diffusione on line di conferenze o convegni mette sub iudice l’associazione sine die, dal momento che dopo la fine degli incontri gli spettatori potrebbero dire di aver compiuto atti discriminatori perché indotti da affermazioni ascoltate in un dibattito pubblico svoltosi molto tempo prima? Vedremo sorgere un’autorità a cui sottoporre preventivamente titoli e testi per essere sicuri di non incorrere in conseguenze penali?
È chiaro che la norma ha l’effetto di deterrente dei dissensi rispetto alle posizioni protette. La sproporzione di forza tra lo Stato e il cittadino in ambito penale e la sproporzione di mezzi tra ricorrenti, appoggiati prevedibilmente dalle lobby proponenti la legge, e i resistenti, in genere singoli cittadini, indurrà chi si impegna in ambito culturale o libero associativo a desistere dal trattare argomenti sensibili. Sarà raggiunto l’effetto auspicato dall’on. Zan in un’intervista al Foglio (16/10/2020): «La legge serve a instillare nelle persone un atteggiamento di prudenza». Chiediamo ai senatori quali garanzie hanno i cittadini rispetto al ddl Zan, poiché nell’intento di iper-tutelare alcuni, la legge rischia di limitare fortemente i diritti fondamentali di tutti.
Tutti, poiché non esistono categorie esenti dall’applicazione della legge Zan, lo stesso mondo associativo LGBT è spaccato da forti contrasti interni: Arcilesbica è accusata di transfobia, Arcigay di lesbofobia, i transessuali di misoginia, molte persone omosessuali hanno preso apertamente le distanze dal disegno di legge Zan, le femministe non accettano di essere inserite tra le minoranze beneficiarie di tutele speciali, le associazioni di disabili si sentono usate strumentalmente per l’aggiunta tardiva e marginale nel disegno di legge. Nello scontro tra persone appartenenti a queste numerose minoranze, il giudice come farà a determinare chi odia di più l’altro o quale categoria è meritevole di tutela a discapito dell’altra? Il ddl Zan rischia di essere più un vessillo politico che una legge concretamente applicabile. Parcellizzare la società in sottocategorie a tutela variabile aumenta inevitabilmente il conflitto sociale, la legge rischia di ottenere l’effetto opposto rispetto a quello dichiarato.
Altro aspetto che ci preoccupa è quello educativo. L’articolo 7 del disegno di legge Zan, che istituisce la «Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia», sembra concepire la scuola come terreno di conquista ideologica per celebrare obbligatoriamente solo la diversità sessuale. Ciò dimostra una scarsa considerazione della scuola italiana, che ha nell’inclusione un suo asse portante. La normativa scolastica in tema di inclusione è ormai consolidata, la scuola insegna il rispetto di qualunque diversità, intesa come unicità della persona e valore aggiunto per la comunità. Come si può immaginare che un tipo di diversità venga addirittura celebrata, ponendola in tal modo al di sopra di tutte le altre, violando palesemente il principio di inclusione su cui la scuola da decenni lavora? Significherebbe creare una inaccettabile gerarchia di valore tra condizioni soggettive.
Imporre di affrontare il tema dell’omolesbotransfobia nelle scuole di ogni ordine e grado è una forzatura rispetto alle tappe dello sviluppo identitario in età evolutiva. La connessione tra lotta al bullismo e prescrizioni del ddl Zan non è chiara. La motivazione che il bullismo si combatta attraverso la decostruzione degli stereotipi di genere fin dalla prima infanzia, lasciando liberi i bambini di autodeterminare il proprio genere di appartenenza, risponde a posizioni culturali non unanimemente condivise dalla comunità scientifica. Si ricorda che il Miur ha escluso l’introduzione dell’educazione all’identità di genere nelle scuole: «Si ribadisce che tra i diritti e i doveri e tra le conoscenze da trasmettere non rientrano in nessun modo né “ideologie gender” né l’insegnamento di pratiche estranee al mondo educativo» (Circ. MIUR n.1972 del 15/09/2015). Le previsioni dell’art.7 paiono invece orientate ad una scelta culturale diversa rispetto al passato.
Esporre i bambini ad argomenti che trascendono i contenuti disciplinari, viola il diritto al consenso informato delle famiglie, detentrici del primato educativo (art.30 Cort., art. 26 Dichiarazione universale diritti umani).
Gli insegnanti non sono formati sui temi delle celebrazioni e questo aprirà alla presenza di associazioni LGBT nelle scuole, con l’esito che si è già visto in Gran Bretagna, in cui sono state allontanate per l’incremento esponenziale di casi di transizione di genere indotta prematuramente e successivi ricorsi dei detransitioners. I senatori hanno la responsabilità di non ignorare conseguenze prevedibili, perché basate su dati oggettivi e verificabili.
È evidente inoltre che l’articolo 7 viola la libertà di insegnamento prevista dall’art.33 della Cost., poiché tutti i tipi di scuole e tutti i docenti saranno chiamati a partecipare alla celebrazione di modelli antropologici che possono legittimamente non condividere, senza possibilità di scelta. L’inciso inserito nella norma per cui le celebrazioni debbano avvenire nel rispetto del Piano Triennale dell’Offerta Formativa della scuola non ne intacca l’obbligatorietà, a meno di presupporre che un PTOF possa derogare a previsioni di legge. È superfluo ricordare che l’autonomia scolastica attiene all’ambito amministrativo, non legislativo, il PTOF si adegua alla legislazione vigente. Il richiamo ai patti formativi è paradossale, poiché sono l’espressione di una scelta dei genitori della scuola in base al PTOF, ma, se la norma resta invariata, rispetto al tema in oggetto non avranno alternative possibili.
La scelta del legislatore di eliminare dall’articolo 7 la disabilità sembra adombrare il timore che mantenendola le scuole avrebbero optato per celebrare questo tipo di diversità, perché tutti gli studenti ne fanno esperienza diretta o indiretta. Si rafforza in tal modo l’impressione che più che favorire l’inclusione si miri ad un preciso orientamento culturale delle giovani generazioni.
Il contesto in cui la generazione Z sta crescendo è in rapida evoluzione, i media li espongono a messaggi sempre più omologati e omologanti, è responsabilità del mondo adulto garantire che abbiano accesso ad una pluralità di punti di vista e si abituino al confronto intellettualmente onesto per sviluppare una capacità critica che li renda liberi e consapevoli nelle scelte e capaci di esercitare pienamente in futuro una cittadinanza attiva.
Le critiche mosse da ogni parte politica e culturale al ddl Zan, nonché i gravi vizi di costituzionalità rilevati da esimi giuristi, molti dei quali auditi da codesta Commissione, inducono a pensare che la ferma ostinazione a blindare il testo approvato alla Camera, sia una pura scelta ideologica. Ricordiamo che il 4 novembre 2020 il voto alla Camera si svolse in un contesto in cui la comunicazione era dedicata quasi esclusivamente all’emergenza pandemica e mancava la consapevolezza delle implicazioni del testo, non solo tra i cittadini ma anche tra i deputati (come affermato dall’on. Fassina – Avvenire 7/7/2021). Chiediamo perciò ai senatori di non ignorare le istanze che la società civile sta sollevando da ogni parte, per il rispetto della sovranità popolare di cui sono i rappresentanti, al di là dell’appartenenza partitica.
Fonte: Esserci | Tempi.it