In questa estate di apparente quiete pandemica si sta delineando l’ordine in cui vivremo a partire dall’autunno. Se fino a qui abbiamo sempre e solo risposto all’incalzare della pandemia, costretti a fare ciò che non poteva essere evitato, ora si tratta di abbandonare la fase reattiva per passare a quella costruttiva. Che, si sa, è più difficile. Divieti, obblighi, raccomandazioni e pass faranno parte della nostra nuova quotidianità, in Italia e ovunque nel mondo.
Le vie che ci si aprono davanti, e che si diramano tutte dalla disponibilità miracolosa di vaccini efficaci, sono in prima approssimazione tre: la massima libertà concessa ai singoli, l’obbligo vaccinale tout court (per tutti o per determinate fasce di popolazione), oppure una coercizione gentile, fatta di limiti sempre più stringenti che dovrebbero indurre quante più persone possibile a propendere, infine, per il vaccino. Dopo settimane di stasi, in cui siamo stati tentati un po’ dalla baldanza inglese, un po’ dall’imperiosità francese, le decisioni di giovedì sembrano confermare la propensione del governo per la terza strada, più soft, all’italiana.
Le discussioni in corso, va ammesso, sono di quelle spinose. Investono sfere emotive delicate, soprattutto per chi si trova oggi a decidere se far vaccinare o meno i figli minorenni. E riguardano a livello costitutivo i principi stessi della nostra società: la tensione fra autodeterminazione e salvaguardia collettiva, la frontiera del corpo, da molti giudicata inviolabile. Domini, tutti, squisitamente politico-giuridici, sui quali la scienza può e deve dire poco, ma in cui continua a essere chiamata in causa, impastata malamente, più spesso usata come grimaldello che come principio chiarificatore. Il fisico russo Lev Landau chiedeva agli studenti desiderosi di iscriversi alla sua scuola di padroneggiare un «minimo teorico» di competenze. Bene, affinché il dibattito in corso abbia un fondamento razionale, conviene fare qualcosa di simile: accertarsi che le diverse voci condividano un «minimo teorico pandemico» riguardo alla situazione attuale.
Al centro del discorso c’è ovviamente la variante Delta. È già dominante in territori come la Gran Bretagna e lo diventa in fretta anche da noi. Dalla sua ha una trasmissibilità molto più elevata e, pare, un tempo di incubazione più breve, che rende la curva di salita dei contagi potenzialmente più ripida. Se l’R0 con cui ha avuto a che fare Bergamo nella fase più buia era vicino a 3, la Delta ha un R0 stimato fra 6 e 8. Non è più veloce, è molto più veloce. Se nella primavera del 2020, inermi com’eravamo, avessimo affrontato la Delta al posto del virus originario, i morti sarebbero stati molti di più e il lockdown molto più a lungo. Insomma, sebbene il virus sia lo stesso, la Delta è un’altra storia.
Questa consapevolezza dovrebbe frenare l’esultanza precoce di chi aveva deciso che l’estate avrebbe segnato uno spartiacque definitivo nella pandemia. Il presupposto di chi difende questa linea è il seguente: la curva dei contagi potrà anche risalire selvaggiamente (e lo farà, lo sta già facendo), ma grazie ai vaccini gli ospedali resteranno scarichi e i morti una manciata. La via inglese, insomma. Pragmatica, definitiva. Il Covid infine declassato al rango di influenza. Non è del tutto insensato, e in parte è davvero così. Il disaccoppiamento fra le curve epidemiologiche a cui anelavamo mesi fa si è prodotto. Ma «disaccoppiamento» non significa che sia stata cancellata la consequenzialità fra nuovi contagi, ospedalizzazioni e poi decessi. La consequenzialità e la proporzionalità, purtroppo, esistono ancora, solo che sono smorzate. Nel Regno Unito già si vedono le ospedalizzazioni in impennata. Perché accade? Perché i vaccini hanno un’efficacia straordinaria nel prevenire la malattia grave, ma non pari al 100%. E perché i vaccinati sono tanti, ma non saranno mai il 100%. Quelle percentuali residue, per quanto minime a guardarle su un foglio, possono diventare importanti e creare disagi quando la popolazione infetta cresce a dismisura. Se moltiplichi una percentuale piccola per un numero molto grande, il risultato che ottieni è comunque grande. Insomma, grazie ai vaccini va molto meno peggio di come andrebbe, circa dieci volte meno peggio, ma il peggio dipende in assoluto dalla quantità di nuovi contagi.
L’epidemiologo Neil Ferguson, parlando di recente alla Bbc, ha segnalato come il Regno Unito si avvii verso i centomila nuovi casi al giorno. E ha aggiunto: ma se i casi dovessero diventare duecentomila? «Qui è dove la sfera di cristallo (dei modelli matematici, ndr) inizia a fallire». È plausibile che si avrebbe un nuovo ingolfamento del sistema sanitario, ancora interventi e screening rimandati, con tutto quel che ne deriva. Se a qualcuno questi numeri sembrano siderali per l’Italia, si tenga presente che il tempo di raddoppio attuale dei contagi è di circa una settimana.
Dunque, per quanto procediamo spediti con i vaccini, l’uscita dalla pandemia non assomiglierà al superamento di una linea d’ombra. Semmai a un lungo, estenuante crepuscolo. Significa che nulla serve? In parecchi hanno assorbito queste informazioni, in blocco o sparpagliate, e si sono fatti prendere dallo sconforto. Non ne usciremo mai. Tanto ci saranno altre varianti dopo questa. A che pro vaccinarsi allora? Meglio aspettare. Si tratta di un atteggiamento altrettanto illogico. Un atteggiamento che, di nuovo, prescinde dalle percentuali, dai dati, dalla realtà.
In particolare, la diceria che i vaccini non proteggano dall’infezione sta diventando il carburante preferito dell’esitazione vaccinale. Peccato che si basi su una falsità. Se non esiste ancora uno studio esteso su quanto sia l’abbattimento effettivo della trasmissione con la variante Delta, è per una mera questione di tempo. Lo studio arriverà, l’abbattimento esiste. Molto probabilmente verrà fuori che è attenuato rispetto al caso di alfa, ma sarà comunque significativo. Immaginiamo un soggetto positivo a una festa, circondato da altre dieci persone, immaginiamo la scena dal punto di vista del virus. Se i dieci attorno non sono vaccinati, il virus avrà a disposizione dieci porte spalancate. Se sono vaccinati, si troverà davanti dieci feritoie. È ben diverso, soprattutto quando le persone diventano decine di milioni. Nel minimo teorico condiviso deve entrare la consapevolezza che sì, il vaccino protegge anche dall’infezione e inibisce anche la trasmissione del virus. Quindi sì, ha anche una valenza di protezione collettiva. E quindi sì, deve essere fatto anche da chi ha un rischio personale ridotto. Qualsiasi dibattito che non muova da questo assunto è viziato.
Chi poi, a fronte di questa consapevolezza, decide lo stesso di non vaccinarsi, esercita quello che per il momento è un diritto garantito dalla nostra legge, quindi inappellabile, ma deve essere cosciente di farlo a scapito della comunità. Deve essere cosciente, altresì, che le statistiche non valgono solo per i gruppi di persone, ma sono valide, letteralmente, anche per i singoli individui. Chi evita la vaccinazione ha una protezione dal contagio dello zero per cento, ha tutte le antiche probabilità di aggravarsi, ma in presenza di una variante che è destinata ad avere una circolazione massiccia. Sembra così ovvio da non doverlo neanche ripetere, eppure si è diffusa la convinzione erronea che l’immunità comunitaria possa bastare in questa fase, che siamo a un passo dal Sacro Graal di quella di gregge. Purtroppo non è così. Anzi, in un mondo parzialmente vaccinato, perciò più libero e assembrato, e con una variante così performante, i non vaccinati possono rischiare perfino più che in precedenza.
È curioso. Tanto l’esultanza precoce quanto lo sconforto, e anche la sopravvalutazione degli effetti di gregge, sono prodotti dello stesso pensiero binario: ormai siamo/non siamo vaccinati, con i vaccini ci si ammala/non ci si ammala, i vaccini bloccano/non bloccano la trasmissione. Più in generale: funziona/non funziona. On e off. Dentro o fuori dalla linea d’ombra. Un simile pensiero è del tutto inadeguato alla situazione che stiamo attraversando. Perché qui, dovremmo mettercelo in testa, non si ragiona sul tutto o niente. Si ragiona sul meglio che c’è e su quanto ce n’è.
Gli obiettivi
Mi aspetto che, accanto al pressing vaccinale, si aggiusti presto la rotta. Bisogna stabilire obiettivi chiari per le settimane a venire
È quindi il pensiero che va corretto prima di tutto il resto, prima di affrontare ogni discussione politico-giuridica sugli obblighi e i pass, ma anche prima di prendere le nostre decisioni personali. Il minimo teorico pandemico prevede che abbandoniamo, una volta per tutte, il ragionamento binario, e accogliamo al suo posto quello statistico. Perché non è vero che i vaccini impediscono la trasmissione del virus e non è vero che non la impediscono. La bloccano (come bloccano la malattia grave e i decessi) in una certa percentuale. Similmente, non è mai stato vero che il virus risparmia del tutto certi gruppi e ne massacra altri: è vero in una certa percentuale. Qualsiasi deroga da questa complessità costituisce una ipersemplificazione, dovuta all’ignoranza o alla malafede, e porta a conclusioni sbagliate.
Ma ragionare in termini probabilistici è più difficile. Più faticoso. E spesso ci spinge in territori dove l’intuito fallisce. Per esempio, qualche settimana fa si è diffusa la notizia che i nuovi contagiati in Israele fossero per la maggior parte vaccinati. Si è parlato di «paradosso». La conclusione affrettata: i vaccini non servono a nulla, anzi. Ma si trattava di una scarsa comprensione di cosa sia una probabilità condizionata e di come funzioni matematicamente. Il risultato, in realtà, era perfettamente coerente con le aspettative. D’altra parte, se in un futuro roseo e impossibile avessimo il 100% di vaccinati, il 100% dei nuovi contagi si avrebbe tra persone immunizzate con due dosi.
Il 100%: ecco un aspetto di cui non si parla più. Enfatizziamo giustamente la percentuale di popolazione vaccinata, ma esiste ancora un altro 100%, quello della nostra vita sociale. Dopo un anno e mezzo in cui lo abbiamo portato ai minimi storici, sembriamo essercene dimenticati. Ma, considerato che l’efficacia dei vaccini è fissata e non modificabile, l’altro parametro su cui possiamo e dobbiamo ancora riflettere accuratamente è proprio quel 100%. Qual è il massimo di socialità permesso in questo momento, con la variante Delta? Le cose andrebbero ancora meglio se si continuasse ad averlo chiaro, tutti, a partire dal governo e dalle varie forze politiche. Invece la tendenza è di nuovo quella dell’on/off, vita sociale accesa oppure spenta.
È doloroso dirlo, ma in questa seconda estate pandemica si osserva una carenza di visione non troppo diversa da quella di un anno fa. Se la gestione degli obblighi, dei divieti e dei pass richiede, come abbiamo già detto, un confronto politico ampio, la pianificazione dell’autunno esige un’azione molto più decisa e tempestiva. In settimana sapremo qualcosa di più, ma siamo già in ritardo per organizzare l’anno scolastico in presenza della Delta, quando lo stesso bambino infetto che l’ottobre scorso avrebbe contagiato in media un solo compagno di classe, ne infetterà due. Esplosioni più repentine, focolai più massicci. La preoccupazione principale, almeno fino a giovedì scorso, è stata invece quella di aggiustare i parametri ad hoc per tenere l’Italia in bianco «fino a Ferragosto». Con il gioco di prestigio, pericoloso per tutti, di spostare decisamente il baricentro verso le occupazioni degli ospedali, un parametro che sappiamo essere più tardivo, e per di più con soglie azzardate.
Mi aspetto che, accanto al pressing vaccinale, si aggiusti presto la rotta. Che vengano stabiliti degli obiettivi chiari riguardo alle settimane a venire. Una strategia multilaterale e organica. Quanti nuovi casi giornalieri possiamo tollerare? Con quanti vogliamo affacciarci all’inizio dell’anno scolastico? Vanno bene cinquantamila al giorno, seguendo mollemente il pendio su cui stiamo rotolando adesso, oppure decideremo per la prima volta che non è accettabile? Come gestiremo le classi? Quali misure di mitigazione resteranno in atto, accanto alla via maestra dei vaccini? E come comunicheremo ai non vaccinati il rischio che corrono affinché, a prescindere dalla bontà delle loro scelte, non si mettano in pericolo?
Fa bene ricordarsi, incidentalmente, che la variante Delta è stata identificata per la prima volta in India, dove con ogni probabilità si è prodotta. È l’ultima prova di quanto la pandemia abbia effetti a lunga distanza, spaziale e temporale, impossibili da prevedere, e che tuttavia non possiamo ignorare. La diffusione incontrollata del virus in India, mesi fa, pregiudica il nostro prossimo autunno qui: ecco come funziona. Funziona che non esiste soluzione locale senza una soluzione globale. Funziona che sottrarsi a una raccomandazione per un ipotetico vantaggio personale produce danno a tutti (un danno che infine torna aumentato su di sé). Funziona che ragionare in termini assoluti conduce a errori grossolani di valutazione. E funziona così, sempre uguale, da più di un anno.
Fonte: Corriere.it