«Davvero si muore di Covid-19? Forse si muore perché viene meno il senso della vita». Questa non è una affermazione no vax e a farla non è un negazionista del virus infiltrato al Meeting di Rimini. È semplicemente la constatazione, banale e rivoluzionaria, offerta dal professore emerito di Medicina all’Università di Montreal, Patrick Vinay, «che per diventare noi stessi abbiamo bisogno degli altri. E senza contatti umani di qualità», soprattutto nelle ultime fasi della vita, spesso ferite dalla malattia, «nessuno può avere un presente degno di essere vissuto».
«Perché vieni qui? Muoiono tutti»
Per intensità e profondità, «Custodi della vita. Il “noi” dentro l’”io”» è uno degli incontri più importanti del Meeting e chiude degnamente la XLII edizione. Se la pandemia ha sconvolto la vita di tutti, a maggior ragione ha colpito la vita degli operatori sanitari e dei malati, soprattutto terminali, che si sono ritrovati all’improvviso soli, senza la possibilità di relazionarsi con amici e parenti.
Lo testimonia Cristina Benetti, Memores Domini che lavora come capo infermiera presso il Jewish General Hospital di Montreal, che si è offerta volontariamente nel massimo momento di crisi dovuto alla pandemia di andare a curare gli anziani di una casa di riposo. Invece di fermarsi all’indicazione di una collega – che le disse: «Cosa fai qui? Qui muoiono tutti, io voglio andarmene» – Benetti si è data anima e corpo per prendersi cura dei pazienti, soprattutto di una signora di origini italiane:
«Aveva avuto un forte ictus, era paralizzata, non parlava e tutti pensavano che non potesse. Quando passavo davanti alla sua stanza le parlavo in italiano e vedevo che i suoi occhi brillavano. Un giorno le ho chiesto se voleva dire l’Ave Maria in italiano e con mia sorpresa iniziò a parlare e a pregare con me. Chissà da quanto non pregava nella sua lingua. Ho capito che Dio mi aveva voluto lì per fare compagnia a quella signora».
«Servono relazioni vere, non un vassoio»
Ma che cos’è questa compagnia che Benetti ha fatto a quella signora, davanti alla quale tutti sono sempre passati senza averla davvero mai vista? Come spiega Vinay, che ha dedicato l’ultima parte della sua carriera allo sviluppo delle cure palliative, «la necessità delle relazioni è al centro delle nostre vite e noi costruiamo la nostra identità nella relazione con gli altri. A 50 anni ci sembra di essere “arrivati”, che il nostro “io” sia ormai formato e che nulla più cambierà. Ma non c’è niente di più sbagliato».
Quando infatti «arriva il terremoto della malattia», si scopre che la sofferenza non è innanzitutto fisica come da giovani, «ma piuttosto spirituale. In questa fase della vita le persone pensano in modo diverso rispetto al passato, comprendono i problemi in modo nuovo e si vedono in modo diverso». Hanno tante domande, continua il professore emerito, «tanti dubbi. C’è allora bisogno di un nuovo spazio per esprimersi e far emergere gli interrogativi sulla propria identità. Per esplorare tutto questo bisogna avere a fianco persone che ascoltino. Solo nell’esserci si trovano le risposte, solo in questo “noi” si può riscoprire l’”io”».
Se mancano queste relazioni, se medici e infermieri non pongono questa attenzione ai pazienti, «gli altri non diventeranno se stessi. Senza contatti non c’è significato e non c’è desiderio di vivere, e se non c’è desiderio di vivere, arriva la depressione e di conseguenza si accelera anche la fine della vita. Non si può avere contatto solo con il vassoio del pranzo. Bisogna pensare a questo durante la pandemia e trovare il modo di mantenere i contatti nonostante le mascherine e tutto il resto. Altrimenti diamo una risposta tecnica, ma che non consente da sola di portare avanti la vita se non per un breve momento».
«Si muore per mancanza di senso»
Ma per fare compagnia, specie quando il malato soffre di una patologia importante o terminale, non basta essere presenti. Lo testimonia con forza prorompente don Vincent Nagle, cappellano della Fondazione Maddalena Grassi, che viene chiamato in causa «quando c’è un malato che vuole morire, perché pensa che non valga più la pena vivere e magari vuole andare in Svizzera a ricevere l’eutanasia». Per il missionario della Fraternità San Carlo Borromeo, è proprio come dice Vinay: «Si muore innanzitutto per mancanza di un significato».
E per spiegarsi meglio racconta l’esempio di Giuseppina, donna malata di Sla, madre di due figli inacapaci di farle compagnia, sorella di Caterina, morta di tumore nella fase più difficile della sua malattia. «Con Giuseppina ho parlato di Dio, dei santi, ma lei voleva solo morire. I figli erano persone oneste, ma facevano fatica a starle vicino e a prendersi cura di lei. Ho assistito a scene pesanti, la fatica era enorme. Lei non voleva appesantire la vita dei figli e farli soffrire. Stando con lei una volta le ho detto: “Giuseppina, devo dirtelo: i tuoi figli non sanno amare. Mi dispiace. Questa tua malattia è per loro l’ultima occasione di imparare ad amare. Vuoi farlo? Lei non mi rispose ma da quel giorno non mi ha mai più espresso il desiderio di farla finita. E quando due anni dopo è morta, era serafica e in pace».
La croce di Giuseppina
Spiega ancora don Nagle:
«Giuseppina era come Cristo attaccata alla sua croce. Cristo non toglie mai la croce, ma ci accompagna fino in fondo. Giuseppina è morta grata perché ha incontrato il significato, ma questo non è possibile se non in una compagnia che lo sveli. E il significato è Cristo. Se io posso accompagnare questi malati è perché ho la loro stessa domanda di salvezza. Avere questa domanda, apre la stessa domanda negli altri e la risposta c’è, c’è, è attiva ed è all’opera».
Fonte: Leone GROTTI | Tempi.it