Sopra il muro di cinta dell’aeroporto di Kabul c’è Claudio che tira su bambini afghani pescandoli dal buio del loro destino. Ma c’è anche Luca, su quel muro. Che imboccava i neonati del Congo come fossero figli suoi e si avventurava negli anfratti più pericolosi dell’Africa per capire come fare a dare da mangiare a tutti. E se guardiamo bene vediamo Elettra, che in Tunisia nel silenzio della lontananza tratta con i potenti per far rilasciare i pescherecci italiani. E Yara, e Stefano, e tutta la nuova generazione della diplomazia italiana.
Giovani, impegnati, operativi. Sono segretari di legazione, consoli, talvolta anche ambasciatori. Hanno meno di quarant’anni. Portatori sani di un nuovo concetto di rappresentanza internazionale che alla feluca preferisce un paio di scarpe sportive consumate e un giubbotto antiproiettile. Saltano i drink organizzati nei salotti con l’aria condizionata per salire sudati sui fuoristrada scassati dei convogli umanitari. Scansano le chiacchiere e i grandi discorsi di geopolitica, vanno sul campo, ci mettono il corpo. La prima parola di italiano pronunciata in certi angoli sperduti del mondo è la loro. Ed è una parola di pace, di solidarietà, di inclusione.
La foto del console Tommaso Claudi mentre afferra un ragazzino di 7-8 anni dalle mani di un padre rassegnato al più doloroso degli addii rimbalza sui giornali, sui social, nelle televisioni. E quanto assomiglia quel gesto, per postura fisica e morale, alle mille istantanee dei salvataggi dei migranti nel mar Mediterraneo. È diventato virale come talvolta lo sono i buoni sentimenti e la retorica che li accompagna. Già lo chiamano eroe e la definizione viene facile visto che è l’unico diplomatico italiano rimasto a Kabul dopo l’evacuazione disposta dalla Farnesina dell’ambasciatore Sandalli che pure, dice ora il ministro Di Maio, voleva restare. Senza neanche fargli la domanda, sappiamo già cosa risponderebbe il console: non sono un eroe, sono un funzionario in missione all’estero per l’Italia.
Tommaso Claudi nasce a Camerino nell’agosto del 1990, nove mesi dopo la caduta del Muro. È figlio della giornalista Giovanna Zucconi e dell’architetto Marco Claudi. Nel 2003 i due divorziano e la madre si risposa con Michele Serra. Tommaso vive un po’ a casa della mamma, un po’ col padre. Fino a diciotto anni il suo orizzonte è lo skyline di Milano. Si diploma al liceo Leonardo Da Vinci poi in pochi anni prende due lauree: in Linguistica a Pavia e in Relazioni Internazionali alla Cattolica. Fa il concorso in diplomazia, lo supera a pieni voti e nel 2019 gli viene assegnato un incarico. Su sua esplicita richiesta la prima destinazione è Kabul, la capitale di uno dei Paesi più complessi e pericolosi al mondo. Non è il profilo di un eroe, è il profilo di un italiano per bene. Come Luca Attanasio (classe 1977), anche Claudi la Guerra Fredda la legge sui libri. La politica estera nell’età della loro maturità si compone di missioni di pace, di operazioni di peacekeeping, della gestione complicata dei progetti di esportazione della democrazia.
Decidono di vivere lontano da casa, fanno colazione coi carabinieri e pranzo con le forze speciali. Formano le loro opinioni discutendo con chi è in prima linea. Condividono un metodo, che è quello degli uomini migliori dell’Arma, pronti a mollare il fucile e le formalità quando a chiedere aiuto sono gli ultimi.
Attanasio era così. Nel 2017 capo missione a Kinshasa come consigliere di legazione, nel 2019 è ancora lì come ambasciatore e plenipotenziario. L’Africa lo strega, gli scorre nel sangue. Segue diversi progetti di cooperazione internazionale per il miglioramento delle condizioni di vita e della tutela dei diritti. L’hanno ammazzato la mattina del 22 febbraio scorso sulla strada per Bukavu. Era insieme a un carabiniere, Vittorio Iacovacci. Era un viaggio senza scorta con il World Food Programme, il programma alimentare delle Nazioni Unite. Un ambasciatore poteva mandare qualcuno, o farsi fare un resoconto. Ma Attanasio no, voleva esserci, vedere, capire, provare. Italiani brava gente, dicono. In una foresta del Congo o sopra un muro a Kabul, capita di incontrare italiani di cui essere orgogliosi.
Fonte: Fabio Tonacci | La Repubblica