«Talvolta accade che l’errore sia così simile alla verità che a nessuno può passare per la mente l’idea che si tratti di errore»: così Lev Sestov ha evidenziato il sottile confine che spesso separa il vero dal falso.
Su questa sottilissima linea che separa queste due dimensioni, che spesso possono fare la differenza tra la giustizia e l’ingiustizia, tra la libertà e la schiavitù, tra la vita e la morte, si sta consumando anche quella che si può definire la “tragedia pandemica”, aggravata dalla crisi di una scienza che avendo perduto autorevolezza cerca di rifarsi con l’autorità, di un diritto smarrito che dimentico dei propri fondamenti cerca di ripiegare sul mero formalismo emergenziale, di uno Stato di diritto la cui sfolgorante luce appare incredibilmente eclissata dalla piccola, infinitesima ombra proiettata da un virus come il Covid.
Un sentiero errato
Il problema della pandemia ha aperto uno sguardo d’insieme non soltanto sulle capacità gestionali, sull’efficienza del sistema sanitario nazionale, sulla coerenza delle tesi scientifiche, sulla inadeguatezza di alcuni strumenti giuridici utilizzati, sulle difficoltà di conciliare la tutela del singolo e quella della collettività e di garantire all’un tempo diritti fondamentali di pari rango e importanza come lavoro e culto, salute e circolazione, ecc, ma anche su alcune dimensioni antropologiche di base.
Se da un lato il mondo scientifico che ha affrontato la crisi pandemica ha fatto perno sul principio d’autorità, sdoganando slogan come “si può sospendere lo Stato di diritto”, “la scienza non è democratica”, “alla scienza si obbedisce” ecc, dall’altro lato anche una parte del mondo cattolico – disorientata anche a causa di una univoca pastoralità oramai perduta da tempo anche su temi ben più cattolicamente pregnanti – sembra aver imboccato un sentiero altrettanto errato.
La mera libertà di scelta
Come la scienza non può autoidolatrarsi senza divenire culto e contraddire se stessa, così come non può avvalersi del principio d’autorità, così i cattolici non possono invocare – senza rischiare l’effetto boomerang – il mero principio della libertà di scelta in merito alla vaccinazione anti-Covid e ciò per diversi motivi.
In primo luogo: sebbene possa apparire paradossale che proprio il mondo cattolico – la cui matrice culturale ha sempre contribuito ad edificare quella nozione di libero arbitrio che così silenziosamente basilare è divenuta per il mondo contemporaneo pur ignorandone proprio l’origine storico-concettuale – non possa avvalersi del principio della libertà di scelta, è in effetti aspetto logico ed inevitabile, anche se occorre comprendere il senso di tale limitazione che certo non è assoluta, ma relativa, cioè circostanziata alla questione dei vaccini anti-Covid.
Un principio ambiguo
La libertà di scelta, infatti, sebbene sia senza dubbio tale in caso di assenza di obbligo vaccinale generalizzato – quale è la situazione attuale – non è un argomento sufficiente, poiché nel contesto culturale odierno essa fa appello non al senso di comunità che dovrebbe contraddistinguere l’alveo cattolico, ma al suo opposto, cioè a quel mondo secolarizzato, anarcoide e individualista che su tale principio ritiene legittimo l’aborto, la selezione eugenetica degli embrioni, la maternità surrogata, la legalizzazione degli stupefacenti, l’unione di coppie differenti da quella monogamica tra uomo e donna, la morte assistita ecce cc.
Il principio della libertà di scelta, dunque, è divenuto oramai troppo ambiguo e cattolicamente estraneo per poter essere utilizzato dagli stessi cattolici.
In secondo luogo: ciò che emerge non è tanto il problema della mancanza di libertà di scelta, dato che per ora manca un obbligo vaccinale anti-covid generalizzato, quanto piuttosto la arbitraria sottrazione dello Stato e delle istituzioni a quel dovere di solidarietà a cui ci si appella per incentivare la vaccinazione anti-Covid.
Diritti e doveri
Ora, si dia il caso, che alla luce del buon senso, della sua dimensione essenziale, nonché alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale (ex plurimis cfr. 5/2015 e 118/2020) il dovere di solidarietà è sempre biunivoco, per cui quelle stesse istituzioni che pretendono giustamente che i cittadini si vaccinino per far fronte alla pandemia, dovrebbero assumere su di sé altrettanto giustamente il dovere degli eventuali indennizzi in caso di danni derivanti dai vaccini medesimi.
Il recente caso della giovane pallavolista Francesca Marcon è in questo inequivocabilmente paradigmatico.
Certo non un caso isolato come si evince del resto dal settimo rapporto dell’AIFA dello scorso 26 luglio 2021, ma di per sé sufficiente a dimostrare la mancanza da parte dello Stato del rispetto del diritto alla salute dei singoli, e del dovere di solidarietà che dovrebbe contraddistinguere una comunità sociale e politica che guardi al diritto e non all’arbitrio, alla certezza e non al caso, alla giustizia e non alla cieca sorte.
Due ingiustizie
I cattolici che insistono sulla libertà di scelta in assenza di obbligo, dunque, fanno vuota retorica, mancando il bersaglio etico principale che, invece, consiste nel richiamare le istituzioni a quel senso di responsabilità a cui per ora indegnamente si stanno sottraendo.
Come due ingiustizie non fanno giustizia, sarebbe bene che quella parte del mondo cattolico che sulla libertà di scelta insiste si rendesse conto che un secondo errore non corregge il primo, assumendosi l’onere culturale di portare al centro del pubblico dibattito ciò che è cattolico per definizione, cioè non l’insindacabile capriccio, quanto piuttosto l’umana responsabilità a cui le stesse istituzioni – come insegna la Dottrina Sociale della Chiesa – non possono sottrarsi.
Fonte: Aldo Vitale | Tempi.it