Milano, quando i vigili del fuoco sono entrati nella casa hanno dovuto scavare tra tonnellate di cianfrusaglie accumulate per recuperare il cadavere e hanno trovato vivo un figlio di cui nessuno sapeva l’esistenza.
Chiusi in casa, sepolti vivi. Sono frasi che abbiamo pronunciato anche noi nei mesi di lockdown. L’isolamento è diventato un’esperienza brutta con cui abbiamo fatto i conti, c’è chi per proteggere i propri cari si è barricato in una stanza per settimane. La quarantena può anche essere stata occasione di ritiro, nel senso spirituale del termine. Ma la casa che diventa una prigione e i vicini che sembrano a mille miglia di distanza, questo sapore amaro l’abbiamo comunque sentito. E non è gradevole.
Poi ci sono casi in cui questa condizione assume i contorni di un incubo in cui si fa fatica a entrare, bisogna forzare una porta oltre la cui soglia c’è un quadro umano che abbiamo paura di guardare.
Aprite quella porta
Non si sa chi abbia allertato le forze dell’ordine, ma è stato necessario richiedere l’intervento dei vigili del fuoco per capire cosa fosse accaduto in un appartamento al civico 20 di via Scarlatti a Milano.
L’appartamento era saturo fino al soffitto, cataste di materiale d’ogni sorta rendevano l’aria irrespirabile e rendevano impossibile qualsiasi movimento. Per questo è stato subito necessario l’intervento dei vigili del fuoco, che comunque, dopo aver abbattuto la porta, hanno dovuto faticare a lungo prima di ricavare un varco ed esplorare i due locali.
Un piccolo bilocale, pieno di una storia che trabocca di rifiuti e silenzi. Al centro ci sono una madre e un figlio, scomparsi dalla vista di tutti nel centro di Milano, tra il traffico della Stazione Centrale e il sovraffollato corso Buenos Aires.
Qualcosa era successo
Siamo arrivati troppo tardi a raccontare questa storia? O è una storia che non abbiamo voluto vedere mentre si svolgeva? Ora davanti alle forze dell’ordine c’è un bilocale stipato di oggetti, un cadavere e un ragazzo-uomo smarrito. Presenze mute di cui noi lettori ignoriamo anche i nomi.
Si sono trovati di fronte a una scena raccapricciante: il cadavere di una donna di 70 anni, circondato dai materiali accumulati in chissà quanti anni di solitudine e ossessioni, e poco distante – al di là di una sorta di tunnel scavato tra sacchi ricolmi di indumenti, cartoni e oggetti d’ogni sorta – un uomo più giovane in condizioni spaventose. Immobile, silenzioso, con gli occhi fissi verso il nulla. Il figlio della donna defunta, che nessuno nel palazzo aveva mai visto.
Non c’è più, ma si sente ancora la voce di Dino Buzzati che passò buona parte della sua vita a raccontare la Milano invisibile della cronaca nera. Le pieghe dolenti della grande metropoli da bere. E in uno dei suoi racconti sul mistero, intitolato Qualcosa era successo, c’è uno spettatore inerte di fronte a un probabile evento clamoroso: vede oltre il finestrino dei segni di allerta, un grosso pericolo scritto sui volti affannati di persone a cui non può parlare perché è a bordo di un treno che fila via veloce. Sa che scendendo scoprirà qualcosa di tremendo accaduto all’umanità, ma per tutto il tempo del racconto ne presagisce solo l’ombra ignorando di cosa si tratti.
Di fronte alla scena macabra del civico 20 di via Scarlatti ci si sente così: sicuramente qualcosa è successo, qualcosa che implorava soccorso mentre la città è rimasta sul suo treno in corsa ed è andata oltre. E tra le cataste di cianfrusaglie ci sono anche due persone ridotte a scarti.
Di guardia sul pianerottolo
In condominio tutti sanno tutto di tutti, e ci si conosce ben poco. La vulgata è questa e per fortuna ci sono delle eccezioni. Proprio durante i lockdown ci siamo scoperti capaci di gesti estremi, vincendo l’estraneità fra vicini di casa e osando gesti come la spesa comune in caso di quarantene, o chat diverse dalle solite lamentele su rumori e raccolta differenziata.
Eppure resta vero che dietro ogni porta d’ingresso c’è un mistero insondabile, anche quando la casa è abitata da una famiglia normalissima. (Che sia mai esistito qualcosa di vagamente simile a una famiglia normale?). La porta è una frontiera, un segno di confine oltre cui si dipanano vincoli domestici mostruosi, cioè unici nel loro genere. E la metafora umana che da sempre ci offre il condominio è quella di gente che preferisce origliare, piuttosto che bussare. Incontrare chi abita accanto a noi è un atto eroico, significa chiedersi: chi mi è stato messo vicino – dal caso, dalla Provvidenza – può essermi realmente compagno di vita e di strada (anche se butta le briciole sul mio balcone)?
Della donna che abitava in via Scarlatti si sapeva per certo una cosa:
Lei non apriva mai la porta se c’era qualcuno sul pianerottolo.
Aprire quella porta significava mostrare l’indecenza e lo scandalo di una sovrabbondanza patologica, un disordine che dall’intimo traboccava all’esterno. Tonnellate di cianfrusaglie stipate ovunque. Da quando era lì tutta quella roba? Perché? Gli americani ci fanno i programmi sugli accumulatori seriali, e il punto è vedere poi la casa liberata dal disordine. E’ catartico ma non è realistico. C’è gente che si porta un peso addosso e lo trasforma in uno spazio fisico asfissiante e congestionato. Qualcuno farà le analisi psicologiche del caso. Io so che ho pulito a fondo la casa di mio padre, liberandola di chili di inutilità e quando lui è tornato a casa dall’ospedale si è rimesso a tirar fuori inezie impolverate da spargere in giro. Con una cocciutaggine irremovibile ha di nuovo riempito la casa di roba.
La pulizia era la mia presunzione di spianare la via, vedere terso l’orizzonte. Invece la zavorra di un’anima si ripresenta, si riguadagna un centimetro alla volta, occupa comodini, si siede sul divano.
Ma nessuno sapeva di quel figlio?
E poi c’è lui, questo figlio di cui nessuno nel palazzo sapeva nulla. Un fantasma, hanno detto i vigili del fuoco che se lo sono trovato davanti. Segregato dalla madre da quanti anni? Perché? Ma i vicini non si erano accorti di nulla?
A queste domande viene facile rispondere con la risposta da copione: i servizi sociali si occuperanno di capire i risvolti drammatici di questa vicenda. Una ponziopilatesca carezza per tirare un sospiro di sollievo e ritornare alle nostre faccende. Fa male stare di fronte al pensiero di questa persona vissuta in un bilocale soffocato da oggetti e con una madre così disturbata come unico interlocutore. Un figlio che lei voleva proteggere fino a farlo diventare prigioniero? Chi lo sa.
Cosa significherà per lui uscire di lì? Quanto peserà la perdita dell’unico legame umano che aveva? Il suo smarrimento potrà avere una risposta diversa dalla disperazione? C’è una via per incontrare quest’anima che è ignota non solo agli altri ma anche a se stesso?
Potremmo andare avanti ore a fare domande, e non quelle che stuzzicano i nostri pruriti da gossip. L’immedesimazione è quella qualità benedetta che ci permette di vederci riflessi nella carne altrui. Il silenzio disorientato di un ragazzo-uomo che non ha mai conosciuto il mondo fuori dalla porta di casa ci conduce sulla soglia delle nostre prigioni. T. S. Eliot sosteneva che il genere umano non può sopportare troppa realtà ed espresse in poesia questo dramma con la domanda: avrò il coraggio di mangiare una pesca? Un morso è un gesto di radicale fiducia nell’essere. Possiamo imitarlo e chiederci: avrò il coraggio di bussare alla porta del mio vicino?
Fonte: Annalisa TEGGI | Aleteia.org