Il coraggio di mamma Annabianca, la riconciliazione con l’uomo che ha causato l’incidente (e oggi le porta lo yogurt), il sostegno delle associazioni
Prima il buio improvviso e cattivo, che ti prende alla gola e che tenta di ucciderti. Poi la luce che piano piano appare, tenue, quasi timida eppure forte e che diventa sempre più intensa, tanto da farti vedere un domani quando pensavi che tutto fosse finito in un istante, ieri. Questa è la storia di Emma e di sua madre Annabianca, ma anche di suo padre Gianfranco e di Tommaso suo fratello. Ed è la storia di tanti altri che con loro hanno sofferto e che con loro hanno vinto il dolore dandogli un senso. Emma ha due anni e mezzo e va all’asilo nido, a Chieri nei pressi di Torino. Quello di Emma è un bellissimo asilo, ci sono molti giochi e il giardino. Emma è molto contenta di andarci. Una mattina di due anni fa, però, accade qualcosa di bruttissimo: un Suv si muove da solo (chi lo ha parcheggiato non ha inserito bene il freno) e investe Emma e altri bambini. Lei è la più grave, ha un brutto trauma cranico: letteralmente una parte del cervello esce dalla sua testa. E’ il buio, per tutti. Inizia quello che sembra essere un cammino che può portare solo al Golgota. Annabianca e Gianfranco sono lì, sempre accanto alla figlia in ospedale. Non sono da soli: ci sono i nonni, i familiari, gli amici. La nonna materna segue Tommaso che ha solo quattro mesi e che deve ancora essere allattato. I medici dell’ospedale infantile Regina Margherita riescono a coniugare scienza e umanità. Due mesi di ospedale, tre settimane di coma. Il 22 ottobre 2019 «Emma c’è», come racconta adesso Annabianca. O meglio «Emma torna», riemerge alla vita dalla quale d’altra parte non se ne era mai andata via. Piccoli passi, minimi progressi, lievi sorrisi, sguardi che parlano, mani che si stringono. Il Golgota non è più l’unico orizzonte. Dopo un mese dall’incidente Emma piena di tubi e fasce riabbraccia Tommaso. «È stato come se l’avesse visto il giorno prima», dice Annabianca.
Alcuni medici parlano di un miracolo. «Che noi non abbiamo certo meritato», spiega ancora la madre di Emma che aggiunge oggi: «Noi siamo credenti, ma non riteniamo che il Signore conceda miracoli ad alcuni e ad altri no». D’altra parte, che importa sapere se sia stato miracolo vero oppure il risultato della forza di Emma e della capacità dei medici? «Però qualcosa c’è stato – dice ancora Annabianca –. In quei giorni i sanitari ci hanno parlato di danni neurologici definiti come devastanti, per i quali sarebbero occorsi sei mesi solo per capirli ». Emma però torna a casa. C’è una festa, arrivano anche il sindaco e il parroco. Ma non è finita. Dopo qualche tempo i genitori di Emma vanno a cercare chi aveva parcheggiato il veicolo con disattenzione. E c’è una sola parola che conta: riconciliazione. «In noi non c’è mai stato un desiderio di vendetta», sottolinea Annabianca che precisa che «oggi Emma fa tutte le cose che fanno i bambini della sua età». Anche mangiare con gusto lo yogurt e il formaggio che quasi ogni settimana chi ha provocato l’incidente porta dall’alpeggio in cui lavora. Certo, Emma ha davanti ancora molta strada da fare e tutta in salita. «Ci sono strascichi pesanti che affrontiamo e che non possono essere negati – dice la mamma –. Emma in questo momento ha un idrocefalo acquisito per effetto del danno enorme che ha avuto; ha un impianto di drenaggio del liquido che le si accumula in testa. È qualcosa che deve essere controllato periodicamente. Ogni sera, poi, verifichiamo la sua frequenza cardiaca per capire se il liquido defluisce correttamente. Emma ha perso anche l’olfatto, ed ha ridotto il gusto. La sua ipofisi è stata danneggiata e quindi sono possibili problemi di crescita di vario tipo». Dolore ancora oggi, dunque. «L’unico modo per dare un senso alla sofferenza – spiega Annabianca –, è renderla utile ad altri». Allora dalla sofferenza, in un pomeriggio, nascono delle parole scritte: il racconto di quanto è accaduto, trasformato in un libro per bambini con tanto di disegni a colori. Un racconto che dice la verità anche se in modo lieve, perché ai bambini la verità va detta. ‘Emma e il cappellino magico’ (pubblicato da poco da Jaca Book) prende titolo da un particolare fasciatura che comprimeva il cranio della bambina e teneva fermo il piccolo tubo che drenava il liquido cerebrale durante il ricovero. Il ricavato dalle vendite del libro sarà per Neuroland (un’associazione creata da chi ha curato Emma), e per Casa Oz, che ha ospitato la famiglia di Emma nei due mesi di ricovero. Il bene che – a volte – scaturisce dal male.
Fonte: Andrea Zaghi | Avvenire.it