«Te lo giuro che ti mando a scuola, pure se devo sudare, perché ti voglio dare una possibilità nella vita. In questo villaggio qui, se vai a scuola, nessuno ti costringe a sposarti. Ma, se non vai a scuola, ti sposano con quello che ti capita appena hai quindici anni. L’istruzione è la tua voce, bambina. Parla per te anche se non apri bocca».
Questa è la promessa che una bambina di un piccolo villaggio nigeriano si sente fare dalla madre che però, di lì a poco, morirà. Adunni, così si chiama, cresce senza la protezione materna, viene tolta da scuola dal padre che, per pagare i propri debiti, a 14 anni la dà in sposa a un uomo anziano e con altre due mogli. La ragazza diventa schiava ma, avendo nel cuore la presenza e la promessa della madre, rimane aggrappata al Sogno per cui lotta nel suo inglese incerto ma sufficiente, ben reso dalla traduttrice: «Mi prometto che andavo a scuola, anche se non faccio gnente d’altro nella vita. Per diventare maestra, perché non mi basta una voce come le altre… Voglio una voce che la sentono forte». Mentre leggevo La ladra di parole, storia bella quanto cruda della scrittrice nigeriana Abi Darè, mi chiedevo: per i miei studenti la scuola è il luogo dove trovare la voce che «parla anche se non apri bocca» o dove invece questa voce si (dis-)perde?
La scuola non è mera trasmissione di dati, altrimenti la DAD avrebbe realizzato la scuola ideale, ma ambiente in cui scoprire le parole per dire e sentire se stessi e il mondo (noi pensiamo e sentiamo nei limiti delle parole che usiamo) e non diventare schiavi di chi ci costringe a essere quello che non siamo. Per Adunni studiare e diventare maestra è questione di voce cioè di vita, invece da noi se vuoi diventare insegnante «sarai un morto di fame anche se avrai tre mesi di ferie».
Apatia, paura, abbandono scolastico sono sintomi di una sistema a cui non chiediamo più di educare, cioè aiutare un essere in formazione a trovare la propria voce, ma di dare «competenze» (a proposito di parole che diventano recinti mentali) per essere «spendibili» sul mercato (del lavoro).
Soggetti di possibilità resi oggetti di aspettative: da inediti a copie.
Oggi purtroppo la scuola buca l’interesse pubblico solo per ragioni sanitarie, ma nessuno parla della pandemia diffusa da anni: la depressione infantile/adolescenziale. L’ambiente, che per vocazione dovrebbe «curare», è spesso «malsano». Perché per il corpo vogliamo un servizio impeccabile dal sistema sanitario, altrimenti è «malasanità», e per l’anima ci accontentiamo invece della «malascuola»?
Il problema è politico. La guerra in Afghanistan è costata, solo agli USA, 2000 miliardi di dollari. Quale sarebbe stato l’esito di 20 anni di conflitto se anche solo una parte del denaro fosse servito per fare scuole e formare maestri? Questione di priorità: una cultura che non educa ha perso le parole, cioè non ha più «voce» sul mondo, come una relazione spenta. E così riempiamo la scuola di device (parola che in origine significava progetto e ora solo oggetto), invece di buoni maestri (coloro che hanno e danno progetti non oggetti). «Ultima generazione» indica oggi strumenti tecnologici più che i nuovi nati.
E così alla «presenza» abbiamo preferito «prestanza» e «prestazione», che incoraggiano fenomeni re- e de-pressivi, perché i giovanissimi interiorizzano una persistente «inadeguatezza» rispetto a modelli (non a caso nome dei device) inarrivabili: «se non ce la fai sei sbagliato».
Quando metteremo al centro della scuola la relazione (classi con meno alunni e cura dei singoli) che consente l’individuazione dei ragazzi, daremo loro l’energia che permette di affrontare la fatica di crescere.
In una pagina commovente Adunni ringrazia coloro che l’hanno aiutata e, tra questi, degli amici speciali: «Entro nella biblioteca. Grazie, dico a tutti i libri sulle mensole, a tutti i miei amici libri, che mi hanno aiutato a trovare una libertà nella prigione. Quando esco non chiudo la porta. La lascio aperta, che lo spirito dei libri mi segue».
Lo spirito dei libri, la voce dei maestri del passato (chi li ha scritti) e del presente (chi li incarna), permette di trovare la voce e resistere alle nuove schiavitù (se non sai chi sei ti fai «possedere» da altro/i): paura di vivere (ansia, disturbi alimentari, autolesionismo, suicidi), individualismo (solitudine, narcisismo, consumismo), nichilismo (violenza e dipendenze).
L’infante, dal latino colui che non parla, trova la propria voce, cioè ha presa su sé e sul mondo, se impara a prendere la parola: diventa «fante», colui che parla in proprio, non teme di dire «io» e affronta la battaglia della vita. Ma ciò accade se qualcuno gli parla e lo ascolta, altrimenti i ragazzi restano «infanti»: senza voce (e piangono, urlano, ammutoliscono). La storia di Adunni mi ha ricordato perché sono un maestro: per dar voce a chi una voce ancora non l’ha o non sa di averla.
Fonte: A. D’Aavenia | Corriere.it