Iniziata ormai la scuola da quasi un mese, tanti sono i cambiamenti nei collegi dei docenti e nei consigli di classe, molti portano con sé i “dolori” del ruolo tanto ambito, ma ottenuto lontano da casa, e di chi è ancora in attesa di una supplenza. Nelle aule, nei corridoi, nei cortili e nelle palestre si raccoglie ogni giorno il senso degli anni di studio, di approfondimento, di specializzazione, di abilitazione, di gavetta, di fatica, di orgoglio ferito, di un mestiere a volte calpestato. Ci si può piangere addosso o al contrario dimostrare ogni ora, ogni campanella, che l’alta missione del docente supera gli ostacoli della burocrazia poco efficiente e di una politica per niente lungimirante. Come? Dando a scuola il meglio di sé!
Non sarà semplice, non lo è mai, tuttavia non è una sfida per il podio il più alto, poiché la gara verrà vinta ogni volta che sarà stato fatto al meglio il proprio dovere e le “medaglie” arriveranno dagli studenti stessi, magari quando meno lo si aspetta. Non è una professione facile, per quanto si dica il contrario, certamente è una professione felice! Chi non la vive così, forse ha sbagliato strada, probabilmente sin dall’inizio. Qualcuno dirà che non è vero, che lungo il cammino si è persa la voglia, che le istituzioni mettono i bastoni fra le ruote, che non c’è riconoscenza, che gli studenti sono svogliati. Se fosse così, dunque, perché continuare a mettersi sulla linea di partenza il 1 settembre, a concorrere, a sfidare l’impossibile record?
Vi sono due risposte possibili: la prima è la necessità di tirare a campare e di uno stipendio per quanto inadeguato, l’altra è il credere veramente nel valore dell’insegnamento per la crescita globale degli studenti, per l’educazione della gioventù, per rendere la società migliore attraverso la cultura, per realizzare sé stessi. Stando coi piedi per terra, raggiunge il traguardo con dignità e spirito di servizio chi sa mettere insieme nella propria vita la prima esigenza con la seconda istanza. Questo, però, si fa sul campo, sul trampolino, in pista, nella vasca, al poligono, sul ring, sulla pedana – continuando la metafora delle Olimpiadi – con la certezza che c’è chi fa il tifo per noi, vicino o lontano, sapendoci dentro quell’aula per duecento giorni di gare. Il “sacro fuoco” dell’insegnamento non va acceso dall’esterno, arde già dentro ogni docente che sia degno davvero di tale missione.
Fonte: Marco PAPPALARDO | InTerris.it