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«Squid game». Quei giochi di morte che affascinano i giovanissimi

Il problema è che tutta questa violenza è di fatto gratuita, con il rischio che lo spettatore apprezzi l’aspetto esteriore più appariscente che è la lotta per sopravvivere a scapito degli altri

Non è facile capire (a parte la tensione che a tratti crea) quali siano i reali motivi del successo di una serie come Squid game (tra l’altro sudcoreana e in lingua originale con sottotitoli), che si appresta a diventare la più vista in assoluto su Netflix, surclassando persino La casa di carta.

Per di più, come scriveva Gigio Rancilio nella sua rubrica «Vite digitali» su Avvenire dell’8 ottobre, anche «tanti under 14 vanno pazzi» per questo prodotto «violento e vietato». Infatti, la visione sarebbe impedita ai minori di 14 anni, ma è una foglia di fico perché poi nessuno è in grado (o ha la volontà politica) di controllare la vera identità di chi accede a una piattaforma on line.

A parte questo, i nove episodi di Squid game (letteralmente “Il gioco del calamaro”) raccontano la storia, ambientata ai giorni nostri in Corea del Sud, di Gi-hum, sfaccendato quarantenne, divorziato, una figlia di dieci anni, scommettitore incallito, un grosso debito con le banche e con gli strozzini, che vive sulle spalle dell’anziana madre fino a che un giorno gli viene offerta la possibilità di diventarlo miliardario (in won, la moneta sudcoreana) partecipando a una serie di giochi ispirati a quelli dell’infanzia che ben presto si rivelano una vera e propria lotta per la sopravvivenza: chi perde viene ucciso.

Il tutto nel chiuso di un ambiente misterioso, nel bel mezzo di un’isola deserta, sotto il controllo di inflessibili guardie armate, vestite in tuta rossa (stile La casa di carta) e maschera nera con su impresso un segno geometrico (tondo, quadrato e triangolare) in base al grado. A capo dell’organizzazione, con una maschera molto diversa dagli altri (vagamente simile ai Mamuthones sardi), un personaggio enigmatico denominato Front Man. E se le guardie sono spersonalizzate e identificate con segni geometrici, i partecipanti al gioco (tutte persone che come Gi-hum fuggono dai creditori) sono a loro volta spersonalizzati in numeri (nel caso specifico da 1 a 456) e come tali, anche loro vestiti tutti uguali, si muovono come automi in ambienti che sembrano delle giganti scatole di giochi accesamente colorate in netta contraddizione con la cupa violenza che si compie all’interno. Come detto, chi perde viene ucciso e generalmente lo si fa con un colpo di pistola alla testa con relative vistose conseguenze per cui il sangue schizza e scorre con evidente effetto splatter (lacerazione dei corpi compresa quando interviene anche un commercio di organi).

Non ci interessa a questo punto il resto della vicenda (che potremmo anche spoilerare dopo la non simpatica indigestione dei nove episodi alcuni dei quali persino un po’ noiosi e stranamente di diversa durata tra loro), ci interessa piuttosto mettere in evidenza il binomio soldi e morte così come emerge dalla serie scritta e diretta da Dong Hynk Hwang, ovvero la bramosia del denaro che spinge a giocarsi la vita, anche perché senza soldi la stessa vita avrebbe poco senso o quantomeno non potrebbe mai essere come uno la vuole. In questo è evidente una critica al sistema capitalista, a una società ipocrita che fa del denaro la misura della libertà e della felicità, che privilegia l’avere sull’essere, che riduce gli uomini a numeri e acuisce le disuguaglianze.

Su questa significazione ci sarebbe poco da dire, se non fosse che a un certo punto uno dei personaggi afferma che tra chi non ha soldi e chi ne ha troppi non c’è nessuna differenza: «Per entrambi vivere non è divertente». Ma soprattutto c’è da dire su una struttura carente, su soluzioni a livello di vicende prive di conseguenze logiche e sugli elementi di umanità che si palesano in alcuni personaggi, compreso il protagonista, che finiscono sempre per affogare nel sangue. Addirittura la peggiore violenza, con tanto di scene crude e situazioni drammatiche, si realizza tra gli stessi giocatori in base al principio morte tua, vita mia. Il problema è che tutta questa violenza è di fatto gratuita: non aggiunge niente a quell’idea iniziale, anzi finisce per confonderla, con il rischio che lo spettatore si fermi, e purtroppo apprezzi, l’aspetto esteriore più appariscente che è appunto quello della lotta per sopravvivere a scapito e a disprezzo degli altri.

Fonte: Andrea FAGIOLI  | Avvenire.it

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