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«Ho abortito ed eseguito aborti per decenni senza vederci esseri umani»

Da “serial killer” delle interruzioni di gravidanza a testimone delle bugie sull’aborto sicuro. La storia del medico Kathi Aultman che aiutava le donne a disfarsi dei bambini finché un giorno le scappò la parola “uccidere”

Kathi Aultman va ripetendo spesso nelle sue interviste: «Ho ucciso più persone di Ted Bundy», il serial killer americano. Al pari di quella di Norma McCorvey e sua figlia Shelley Lynn Thornton – rispettivamente “Jane Roe” nella causa Roe v. Wade e “baby Roe”, la bambina che non fu mai abortita -, la vita di Aultman, ex direttore medico di una clinica Planned Parenthood in Florida ed oggi associate scholar al Charlotte Lozier Institute e membro dell’American Association of Pro-Life Obstetricians and Gynecologist, resiste ad ogni semplificazione della narrazione sull’aborto in America. Sono tante, le storie delle donne che ricentrano un tema astratto come quello dei diritti nel campo, anzi nel corpo, che è loro proprio: il grembo di un madre.

«Mettere questa madre contro il suo bambino ha messo gli americani l’uno contro l’altro», sostiene Shelley, figlia della legge che legalizzò l’aborto e simbolo di una battaglia dai toni sempre più feroci in vista dell’esame alla Corte Suprema del caso del Mississippi, quando i giudici potrebbero capovolgere la Roe v. Wade. Tempi vi ha raccontato la sua storia la scorsa settimana, una storia “subita e patita” e molto diversa da quella piena di scelte di Aultman, oggi figura di spicco nel panorama pro life americano, una delle 240 donne pro-vita a firmare un “amicus brief” a sostegno della Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, il caso del Mississippi appunto. Una storia che inizia con centinaia di aborti.

La bambina che dissezionava i pesci

Un paio di anni fa scrisse a Usa Today «sono stata una professionista degli omicidi di massa», ma negli anni Sessanta Kathi Aultman era solo una bambina una passione infinita per la scienza e un’irresistibile curiosità per l’anatomia: leggiamo in un suo bel ritratto sulla Cna che tutto ciò che era tessuto, muscolo, bulbo oculare o fibra di un organismo vivente la affascinava fin dalla giovane età. Dissezionava i pesci dopo le battute di pesca del padre, un predicatore metodista, chiedeva alla madre di portare a casa cuore, fegato e reni animali per poterli studiare a fondo. Il suo mito era la zia, bioingegnere: il suo laboratorio incredibile aveva convinto la Aultman, ad appena 9 anni, che il suo futuro sarebbe stato lì, in camice da scienziata. Nel ’72, scoraggiata dalle scarse prospettive di lavoro della ricerca, optò invece per medicina.

«Diventai un’esperta di aborto»

Stava per partire per l’università del New Jersey quando scoprì di essere incinta, «e ovviamente pensavo che se avessi tenuto il bambino, non sarei stata in grado di diventare un medico, io e il mio compagno ci saremmo lasciati, famiglie e amici ci avrebbero giudicati eccetera». Così decise di abortire. Anzi, trasferitasi all’Università della Florida per essere più vicina al suo fidanzato, Aultman sentì che la sua esperienza con l’aborto la attirava verso la specializzazione in ginecologia e ostetrica: sentiva che abortire fosse un diritto della donna e non accettava l’obiezione di coscienza. Così si specializzò nell’eseguire “felicemente” aborti durante il primo trimestre e si formò per eseguire aborti a termine e “per smembramento” durante il secondo trimestre di gravidanza.

Mani, piedi, «non erano persone»

«Gli aborti, scoprii presto, possono essere molto redditizi», racconterà la donna. «Quando mi sono laureata in Florida nel 1978, ho lavorato come abortista nei fine settimana, guadagnando più soldi di quelli che avrei guadagnato lavorando al pronto soccorso. Sono rimasta stupita dalle perfezione delle dita dei piedi e dei piedi, ma ho trattato i resti fetali come qualsiasi altro campione medico, senza alcuna emozione». Eseguì aborti anche durante un’altra gravidanza, «ma il mio bambino era desiderato; i bambini dei miei pazienti non lo erano. Non ci vedevo alcuna contraddizione». Né aveva mai pensato, inviando parti fetali in patologia così da osservare e studiare il tessuto embrionale attraverso le diapositive che «si trattasse di persone».

I bimbi in intensiva e quelli abortiti

Volentieri Aultman collaborò all’apertura del primo centro antiviolenza di Jacksonville. Dove tuttavia nessuna donna veniva per abortire in seguito a uno stupro o a una patologia pericolosa in gravidanza, tutte le donne adducevano ragioni inerenti la propria “salute psicologica”, «Non ho mai eseguito un aborto collegato alla deformità del bambino o alla salute della madre. Erano tutti volontari». Non si diede pensiero più di tanto, l’unica volta che mise in dubbio il suo lavoro fu quando si trovò a coprire i turni in terapia intensiva neonatale e si rese conto che «stavo cercando di salvare bambini che avevano la stessa età di quelli che stavo facendo abortire».

«Ma non siete voi a uccidere»

Poi, un giorno, accadde qualcosa. Anzi, accaddero tre cose. Tre incontri. La prima paziente era giovane e la riconobbe, racconta Aultman alla Cna, perché l’aveva già aiutata ad abortire tre volte. Tre volte: stava usando l’aborto come controllo delle nascite. «Sono andata in amministrazione e ho detto: “Non voglio fare questo aborto. Ne ho già fatti personalmente tre su di lei”. “Beh, non dipende da te. Lei ha ragione e tu non puoi discriminarla”». La donna si ricorda di aver risposto con furia, «Certo a voi va bene, non siete voi a uccidere». Era la prima volta che associava la parola “uccidere” all’aborto, pensò, mentre terminava la procedura su quella giovane.

La seconda paziente si era portata dietro un’amica. Che dopo l’aborto le chiese se avrebbe voluto vedere il bambino abortito. «E lei rispose: “No, voglio solo ucciderlo’”. Mi ha colpito, come poteva essere così ostile e arrabbiata con questo piccolo bambino? Non aveva fatto niente di male. Questo mi ha davvero colpito».

La donna pianse per tutto l’aborto

La terza paziente fu la goccia che fece traboccare il vaso. Aveva già quattro figli e non poteva permettersene un altro. Pianse prima, durante e dopo la procedura e quella fu l’ultima volta che Aultman decise di eseguirne una, «non potevo più fare personalmente aborti, non potevo abortire bambini solo perché non erano desiderati». Aultman scriverà anni dopo: «È stato il dolore di una donna che conosceva la gravità morale di ciò che stava facendo a mettere fine alla mia carriera abortista». A poco a poco, scriverà su Usa Today, « ho iniziato a considerare sempre più fragile la narrativa femminista secondo cui l’aborto dà potere alle donne». «Alla fine, non potevo eliminare la consapevolezza che l’unica cosa che decideva il destino del bambino era se lui o lei era voluto o no. Il primo è nato, quest’ultimo è stato ucciso. Sono diventata a favore della vita»

Donne con figli, medici di successo

Non fu un passaggio automatico. La donna cessò inizialmente solo di fare aborti, non di essere favore della scelta. Accettò l’incarico di direttore medico di Planned Parenthood area nord est della Florida, quando ancora la clinca non eseguiva interruzioni di gravidanza. Appena i suoi servizi vennero ampliati, nell’83, Aultman lasciò il lavoro. Non riusciva a fare la pace con l’aborto: era convinta che senza avere abortito non sarebbe mai diventata un medico, ma allo stesso tempo le sue certezze vacillavano ogni volta che una giovane ragazza decideva di portare avanti la gravidanza. Piano piano riconobbe che i suoi timori di allora erano infondati: aveva incontrato troppe donne che non avevano rinunciato ai bambini e ora erano medici di successo. Il suo primo marito chiese il divorzio nonostante l’aborto. Molte famiglie e amici si riconciliavano davanti a culle e bambini. «Nessuna delle ragioni mi ero data per abortire finì per restare valida».

«Guarda cosa ho fatto io»

Il colpo di grazia glielo diede un articolo che paragonava l’aborto all’olocausto e improvvisamente lei, cresciuta nell’orrore dei medici tedeschi, tra foto e racconti del padre che aveva liberato uno dei primi campi di concentramento, arrivò a capirli: «Non c’è da stupirsi che possano fare quello che hanno fatto. Guarda cosa ho fatto io perché non riconoscevo degli esseri umani». Aultman lasciò le barricate pro-choice a metà degli anni Novanta. Ebbe anche una storia di conversione, incontrò quello che sarebbe diventato il suo secondo marito. Ha raccontato la sua storia alla Marcia per la vita nel 2019 e reso testimonianza in diverse sedi istituzionali e da professionista sull’orrore dell’aborto per smembramento. Vive con le due figlie e il marito in Florida, circondata da familiari e amici molto pro-choice. E dove continua a stare dalla parte delle donne, così tanto da denunciare senza riserve il falso mito dell’aborto “sicuro”.

Un bimbo partorito e annegato

Non si tratta solo di convinzioni, ma di medicina: per anni, da ginecologa di guardia al pronto soccorso, Aultman ha dovuto personalmente e costantemente prendersi cura di donne «che presentavano gravi complicazioni, tra cui emorragie potenzialmente letali e infezioni» in seguito a interruzioni di gravidanza effettuate in cliniche, «nessuno del personale chiamava mai per darmi informazioni su una paziente che stavano mandando al pronto soccorso. Questo non è un modo sicuro per praticare la medicina». Nessuno conosce la vera percentuale di donne che hanno complicazioni, «solo 28 stati richiedono ai fornitori di aborti di segnalare le complicazioni post-aborto e gli stati non sono tenuti a presentare i dati sull’aborto ai Centri federali per il controllo e la prevenzione delle malattie». Le cliniche per l’aborto non vogliono che queste informazioni escano ma cronache e casi in tribunale hanno sollevato più volte il velo su un’industra non sicura. Tra gli episodi citati da Aultman – che ribadisce da donna che ha abortito e che ha fornito aborti e conosce benissimo i motivi di disaccordo sull’aborto in America – quello di una paziente corsa al pronto soccorso per le complicanze di un aborto tardivo: «Ha detto di essere stata tenuta in una stanza fredda durante la notte senza una coperta durante l’induzione. È stata costretta a partorire in un bagno la mattina dopo, solo per vedere il suo bambino ancora vivo annegare».

Fonte: Caterina GIOJELLI | Tempi.it

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