Un milione 200mila firme per affermare cosa? L’oncologa allieva a Milano di Umberto Veronesi cambiò idea sul “diritto di morire” quando si ammalò di cancro. E smaschera la retorica del referendum
Oncologa ricercatrice, nata da una costola di Umberto Veronesi e per anni al suo fianco, Sylvie Menard ancora oggi lo considera suo maestro e «guida impareggiabile per il trattamento dei carcinomi mammari: per anni ho osservato il suo modo di procedere, poi, quando ha lasciato l’Istituto dei Tumori di Milano, ho continuato sulla strada che ha dato origine a quei nuovi farmaci, chiamati intelligenti o biomolecolari, che oggi permettono tante guarigioni prima impensabili».
Menard come Veronesi sosteneva l’eutanasia come diritto: «La mia fiducia in lui era assoluta, quindi accoglievo indiscutibilmente anche la sua idea che, arrivati a un punto in cui la malattia è troppo avanzata, la cosa migliore fosse l’eutanasia. Pensavo: se il corpo non funziona più, o ancor peggio la testa non è più perfettamente sana, non è vita, molto meglio abbreviare subito le sofferenze». Una prospettiva che si è capovolta «quando ho indossato io il pigiama», sorride, ovvero quando dall’oggi al domani si è trovata lei dalla parte del malato sofferente, con una diagnosi di tumore inguaribile al midollo e un’aspettativa di vita brevissima. «Lì ti accorgi che tutte le certezze che avevi da sano, da malato non funzionano più, perché ora conosci le cose, non le teorizzi», e ciò per cui combatti è il diritto alle cure, non a morire. «Il fatto che un milione e 300mila italiani abbiano firmato per un referendum sull’eutanasia mi ha fatto venire freddo alla schiena: sono persone certamente sane, convinte di agire per il meglio. Evidentemente non abbiamo saputo comunicare».
La storia insegna che la narrazione “bugiarda” può portare l’opinione pubblica e le stesse classi dirigenti a trovare “normali” derive invece spaventose.
Il fatto è che la comunicazione del malato verso il sano è quasi impossibile, perché fin quando si è sani e possibilmente giovani, belli e ricchi non si riesce a intuire nemmeno da lontano che cos’è la malattia, la si rinnega anche solo nel pensiero. La voglia di eutanasia in realtà è il tentativo di dire al destino “non prendere me perché io non sopporterei”. La paura della malattia e della sofferenza, senza averle mai sperimentate, è la tentazione dei sani, ma quando ci sei dentro ti rendi conto che non è vero che la vita è invivibile, purché intorno a te ci sia un sistema di cure che ti prende per mano e ti dà tutto ciò di cui hai bisogno, sia dal punto di vista fisico che nel sostegno psicologico.
Lei lo ha sperimentato direttamente?
Prima di ricevere il trapianto di midollo ho dovuto fare chemioterapie ad alte dosi che mi avevano distrutta, avevo il cervello annebbiato, non riuscivo più nemmeno a leggere un libro o ascoltare musica, ma quel periodo era perfettamente vivibile e l’ho superato perché ero curata benissimo da professionisti che rispondevano a ogni mia necessità. Prima della malattia però avrei rifiutato un futuro del genere, dicevo che se si deve dipendere dagli altri la vita non vale più la pena. Vale eccome, purché la società non ti faccia sentire un peso e tutto sia fatto con garbo e umanità.
Anche perché c’è gente che così ci nasce…
Certo, e dal momento in cui dicessimo “questa vostra vita è impossibile dunque può essere interrotta” andremmo a dire a tutti i più fragili che la loro esistenza è inutile, che ci costano, e che anziché spendere per migliorare la loro situazione è meglio dare loro una rapida alternativa, cioè l’eutanasia. Io che da medico alzo la voce ogni volta che vedo una cura che non va e pretendo che il malato sia gestito al meglio è chiaro che sarei messa a tacere: è molto più impegnativo garantire a tutti il diritto alla cura che fargli un’iniezione mortale. Questo mi fa tanta paura.
La definizione di “suicidio assistito” invece fa pensare a una scelta volontaria, un diritto.
Il suicidio vero e proprio è considerato una malattia mentale, tant’è che chi non riesce a togliersi la vita viene poi curato nei reparti di psichiatria. Tutte queste persone hanno un punto in comune, la disperazione: per arrivare a buttarsi dal sesto piano o a spararsi è chiaro che si è disperati, esattamente come disperato può essere l’ammalato che non vede un’uscita. Perché allora i primi li curiamo in quanto malati psichici, mentre ai secondi dovremmo dare una spinta a “buttarsi di sotto”? Allora dovremmo aiutare a farla finita anche uno che vuole gettarsi da un ponte: perché lo tratteniamo? Perché la disperazione dell’ammalato è considerata più grave della disperazione di chi ha perso un figlio o è pieno di debiti, o semplicemente è depresso?
Attenzione che non ci siamo molto lontani: se passasse l’eutanasia per i malati, presto arriveremmo all’eutanasia dei depressi, come già avviene in alcuni Paesi.
Senza dubbio. Poi arriveremmo alle vite “indegne” per Alzheimer, poi ai neonati con malattie o malformazioni, ma così avanti dov’è il break, il confine tra la persona che dobbiamo “aiutare a morire” e quella che se si impicca consideriamo folle e cerchiamo di salvare?
La battaglia per l’eutanasia, ragione di vita per certi volti della politica, sceglie i casi estremi e li propone come quotidianità. Il caso doloroso di dj Fabo la dice lunga.
Sono persone usate mediaticamente. Chiunque di noi, anche paralizzato come Fabo, può arrivare alla morte senza pretendere che a ucciderlo sia un medico: basta rifiutarsi di mangiare e bere, ed entro 5 o 6 giorni si muore, naturalmente sedati per non soffrire. La sedazione è un diritto e non viene negata a nessuno, non è eutanasia, anestetizza soltanto ed è usata per legge dalla medicina palliativa con grande umanità. L’ho detto tante volte nei dibattiti televisivi su dj Fabo, ma la risposta dei paladini dell’eutanasia è che ci sarebbe voluto troppo tempo, che 6 giorni erano troppi: chiara bugia, la battaglia mediatica che si è conclusa portando Fabo in Svizzera ha richiesto mesi e mesi. Se quel ragazzo si fosse spento in modo naturale e sedato, come avviene negli altri casi, chi lo circondava non avrebbe ottenuto clamore. La vera domanda allora è: perché dovrebbe essere un medico a fare l’eutanasia? Che specialità abbiamo noi nel nostro curriculum di studi per saper maneggiare i veleni e uccidere qualcuno? Pensino a figure professionali ad hoc, se proprio credono sia giusto togliere la vita alle persone, per i medici è impossibile: basta che succeda una sola volta perché il tabù del non uccidere cada, con conseguenze già viste il secolo scorso.
Nel 2009, quando fu uccisa Eluana Englaro, non malata terminale e non attaccata ad alcuna macchina, suo padre prevedeva che l’esempio sarebbe stato seguito da migliaia di altri genitori di figli disabili. Nessuno lo ha imitato.
È vero, la diga del nostro essere umani ha tenuto. La storia di quella ragazza e del perché è morta mi tolgono ancora il sonno. Guai se una legge rendesse lecito tutto questo. Certo, sono casi disperati, i genitori di questi ragazzi disabili hanno diritto a tutto l’appoggio possibile. Invece gli si dice più o meno “tuo figlio è come fosse già morto”, e spesso si devono arrangiare.
Lei per decenni ha incontrato malati oncologici, molti terminali. In che percentuale le hanno chiesto di morire e quanti invece di vivere fino all’ultimo senza soffrire?
All’Istituto dei Tumori la responsabile della Terapia del dolore e delle cure palliative del fine vita era Carla Ripamonti, professionista eccezionale della quale ho provato sulla mia pelle la capacità direi fisica di consolare il malato. In tutta la sua carriera ha avuto solo due richieste di porre fine alla vita: un uomo che poi invece si è lasciato curare da lei fino alla fine, e una professoressa in pensione sola al mondo, che si è suicidata. Quello che la gente non sa è che abbiamo già il diritto di rifiutare qualsiasi cura e di morire quando vogliamo, senza bisogno di legittimare l’orrore dell’eutanasia. Famoso è il caso della donna con diabete che non ha voluto amputare la gamba e ha preferito morire. Lo stesso può fare qualsiasi malato, rifiutando ogni terapia di supporto, flebo e alimentazione: la sedazione non uccide, solo permette di passare dalla vita alla morte senza dolore e senza accorgersene. Pretendere che un medico ti inietti un veleno è già una violenza inaudita, ma addirittura si vorrebbe eliminare l’obiezione di coscienza.
In Svizzera, patria del suicidio assistito, non è un medico a darti la morte: ti passano un kit (a pagamento) e tu ti suicidi…
E un 10% con il kit non riesce a morire, gli devono dare un rinforzo… Molti non sanno che questo non avviene negli ospedali, dove anche in Svizzera è proibito uccidere le persone, ma in centri privati. Un tempo lo facevano anche sui piazzali dei supermercati, ora in appartamenti e condomìni, tant’è che hanno grossi problemi con i vicini, stanchi di vedere entrare persone e uscire bare. Comunque su 60mila decessi l’anno in Svizzera solo 400 muoiono per suicidio assistito, eppure se ne parla in modo spropositato. È una lotta veramente ideologica.
In genere in Italia si ipotizza l’eutanasia “solo” per i “malati terminali”. Che cosa significa davvero questa definizione?
In alcuni disegni di legge per terminali si intende che abbiano meno di un anno e mezzo di prospettiva di vita. Qual è il medico così folle che sa predire se il malato ne ha per un anno e mezzo? A me ne avevano predetti 3 e ne sono passati 16. Intanto la ricerca corre e si trovano sempre nuovi farmaci. Inoltre quando davvero il malato è terminale, cioè a dieci giorni dalla morte, perché vogliono ucciderlo? Per infrangere il tabù sarà a un mese dalla morte, poi a due, poi a un anno e mezzo, poi senza limiti di tempo: Fabo non era a rischio della vita…
No, ma era disperato.
Era disperato come chi ha visto morire i suoi figli o è fallito in ditta: le motivazioni per voler morire possono essere tante. I numeri dicono che ci sono più malati che si suicidano all’inizio della diagnosi, quando ancora stanno bene, che alla fine. È il cammino di cura a far paura, e c’è chi decide di togliersi la vita ancora prima di fare il percorso. E un medico dovrebbe uccidere queste persone?
In questi giorni abbiamo visto rigurgiti di squadrismo contro il vaccino Covid, per cui si è gridato al fascismo di ritorno. La nostalgia di eutanasia, parola che dopo il nazismo nemmeno si osava nominare, non dovrebbe preoccupare allo stesso modo?
È chiaro che questi estremisti il valore della vita non sanno neanche cos’è, il tabù di prendere una siringa e inoculare un veleno in un altro essere umano, ancorché consenziente, non lo sentono. Se noi lasceremo passare questo crollerà la diga, come già avvenuto in Svizzera: chi si ammalerà di depressione avrà il suo kit, non si cercherà di curare la sua solitudine o le cause del suo malessere – che sia un lutto o un amore fallito o altro –, gli si faciliterà la morte. Se passasse in Italia una legge per l’eutanasia sarebbe la fine della nostra civiltà.
Pensa che possa succedere?
In Italia c’è ancora forte il senso della vita. Però che un milione e 300mila abbiano firmato, in buona fede, per l’eutanasia è molto grave: il messaggio che passa è che chi ti risolve i problemi con un veleno è buono, i medici che ti curano sono cattivi. Guardate che l’accanimento terapeutico non esiste, con i pochi fondi che hanno gli ospedali figurati se ti danno una chemioterapia in più, casomai andrebbero accusati di non aver utilizzato tutte le possibilità terapeutiche che potevano. Ma l’idea comune spesso è quella del medico crudele che impone al povero paziente cose terribili… come col vaccino Covid. Fake news, certo, ma chi assiste ai dibattiti alla fine non capisce più niente e ci crede. Il mio messaggio alla gente è: non abbiate paura, però continuate a chiedere con forza la migliore assistenza possibile. La vera risposta alla deriva eutanasica deve arrivare dal Sistema sanitario nazionale, che deve sempre andare incontro al malato.
Certo, perché se no la paura è motivata.
Ci sono posti dove io non vorrei mai andare a morire, ho visitato tanti ospedali in Italia e alcuni sono allucinanti… Comunque sia chiaro che una legge pro eutanasia vorrebbe dire stop allo studio delle cure palliative e della medicina contro il dolore.
A questo proposito, Marina Ripa di Meana prima di morire volle a sorpresa registrare una video-testimonianza: aveva urgenza di dire che il suicidio assistito era una falsa risposta a un vero bisogno. Aveva scoperto proprio le cure palliative e la morte dignitosa. Con la Ripa di Meana avevo fatto un duro dibattito in tv, lei e Cappato erano pro eutanasia, io contro. Aveva un tumore avanzato e io le spiegavo che esisteva questa possibilità in Italia di morire senza dolore, in mezzo ai propri cari, con un’assistenza di alto livello, compresa una sedazione casomai insorgesse il dolore. Lo ha scoperto, e alla fine è morta proprio così.
Fonte: Lucia BELLASPIGA | Avvenire.it