Caro direttore, nei giorni scorsi ti ho inviato una lettera per sottolineare l’esigenza che le istituzioni civili tengano di più conto del rapporto vitale con il popolo, cui la nostra Costituzione riserva la sovranità. Oggi vorrei riproporre il tema del “popolo” con riferimento alla vita ed all’esperienza della Chiesa Cattolica che, nel Concilio Vaticano II, ha usato la forte espressione di “popolo di Dio”.
Ecco. Penso, innanzi tutto, che il “popolo di Dio” vorrebbe che fosse testimoniata, nella Chiesa, quella unità per la quale Gesù ha drammaticamente pregato prima di essere arrestato e di cui ci dà testimonianza il capitolo XVII del Vangelo di san Giovanni. Purtroppo, in questo periodo, non sembra regnare questa unità, anche grazie a certi esponenti cattolici che si sono assunti il compito di sottolineare ciò che divide piuttosto che ciò che unisce, con grande soddisfazione, penso, del Re delle Divisioni.
In effetti, oggi la Chiesa appare dividersi in due partiti: quello di coloro che sottolineano l’esigenza di rimanere fedeli alla dottrina cattolica (definiti anche come “tradizionalisti”) e quello di coloro che, nel sottolineare le esigenze “pastorali” ,sembrano mettere in secondo piano le problematiche dottrinali (definiti anche come “progressisti”). Questa divisione mi pare sinceramente assurda, anche perché crea scandalo tra i fedeli semplici non ideologizzati.
Che fare? Occorrerebbe, innanzi tutto, guardare ai santi, che hanno vissuto in estrema unità le due dimensioni di cui sopra, avvicinando le persone con l’apertura suggerita dalla carità, ma rimanendo sempre fedeli e saldi nelle verità rivelate da Cristo e confermate dalla tradizione della Chiesa. Tutti i santi hanno vissuto questa unità. Ne ricordo alcuni.
San Filippo Neri, che ha “inventato” l’oratorio per accogliere giovani e adulti, ma con indiscussa fedeltà alla Chiesa ed ai suoi pastori. San Giovanni Bosco, che ha sfidato anche il potere massonico del tempo pur di soccorrere i giovani bisognosi di educazione, senza mai sollevare problemi di incompatibilità con la verità della Chiesa, anzi. Santa Teresa di Calcutta, che ha rivoluzionato la prassi della carità, rimanendo fermissima nelle verità cristiane, anche nei momenti “bui” della sua vita spirituale. San Giovanni Paolo II, nessuno come lui aperto a tutto ed a tutti nel proclamare la verità di Cristo. San Paolo VI che, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, mise in guardia tutti cristiani dal dividere la missione dalla verità della Chiesa.
Personalmente, ho incontrato provvidenzialmente la testimonianza del Servo di Dio don Luigi Giussani (sono sicuro che sarà proclamato santo dalla Chiesa di Dio), che ha mostrato a tutti come tenere uniti tutti gli aspetti della proposta cristiana. Quando iniziai a parlare con lui, egli non iniziò a spiegarmi il mistero della Trinità, ma partì (pastoralmente) dai miei problemi e dalle mie esigenze di giovane liceale, facendomi capire, a poco a poco, che le verità cristiane erano le vere risposte a tutti i miei problemi. La saldezza della sua fede e l’ortodossia della sua posizione personale mi aiutarono a seguire e ad amare la comunità cristiana e ad appartenere alla Chiesa. Per essere “pastorale” non ha mai messo in dubbio o anche solo ammorbidito la dottrina cristiana. Anzi, la riaffermazione delle verità definite nei dogmi davano maggiore forza alla mia esperienza, rendendomi provvidenzialmente “fedele” anche nei momenti di difficoltà.
Come ci ha insegnato il grande Chesterton, è proprio la saldezza della dottrina cattolica a rendere possibile ogni apertura ed ogni missione. Don Giussani era anche feroce nel difendere, in tutte le circostanze, la verità ideale della Chiesa, al di là degli errori che in essa possano essere commessi (oggi, pare che i cattolici siano più preoccupati masochisticamente di sottolineare gli errori umani della Chiesa che non la sua verità perenne). Mi ricordo che un giorno, in un momento di mia particolare intensità spirituale, mi lamentai con don Giussani per il fatto che la Chiesa ambrosiana vietasse la celebrazione della Messa nei venerdì di quaresima. Egli mi rispose: «Non criticare la Chiesa». Quella risposta mi fece capire tante cose sulla “santità” della Chiesa e di come sia bello appartenere ad essa.
Insomma, per il bene del popolo cristiano, dovremmo sempre testimoniare l’indivisibile unità tra pastorale e dottrina e quindi cancellare la irreale divisione tra “tradizionalisti” e “progressisti”. Sono sicuro che la certezza circa la dottrina ci rende aperti verso il mondo e che la carità pastorale rende concreta anche una dottrina che potrebbe anche apparire astratta.
L’esperienza cristiana è una, come ci hanno dimostrato i santi. Guardiamo a loro, soprattutto a quelli più vicini nel tempo a noi, per cercare le vie più attuali per parlare efficacemente di Cristo agli uomini e alle donne di oggi. Guardiamo più ai santi che ai tanti “esperti” di oggi, che si fanno vivi ad ogni annuncio di qualche Sinodo, spesso per inventare qualche stranezza nell’impostazione della Chiesa. Solo una rinnovata unità tra dottrina e pastorale, cioè una rinnovata unità di vita cristiana può ricreare un popolo nuovo.
Fonte: Peppino ZOLA | Tempi.it