È il migliore al mondo, sfotte senza pietà la cancel culture e prende in giro gay e trans, che chiedono la rimozione del suo show. Che però è ancora lì
La cancel culture logora anche chi le sopravvive (finora). È il caso di Dave Chappelle, considerato a ragione il miglior comico americano degli ultimi anni, uno che Netflix paga 20 milioni di dollari a show per poterli trasmettere sulla propria piattaforma in esclusiva, uno che non piace ai critici e ai giornali che stanno dalla parte giusta della storia ma se ne frega perché piace alla gente, ma che nel suo ultimo, contestatissimo monologo comico, The Closer, sembra più reagire con fastidio agli attacchi subiti negli ultimi tempi che non fustigare con spietata comicità tabù e ossessioni politicamente corrette dell’America contemporanea.
L’ira dei trans contro Chappelle
Facciamo un passo indietro. Con un suo spettacolo del 2017 Chappelle aveva battuto ogni record di ascolti su Netflix, ma è stato con Stick and Stones del 2019 che ha abbattuto ogni limite, con uno show tra i più scorretti mai visti. Sessantacinque minuti di pesantissime prese in giro a gay, transgender, femministe, abortisti e asiatici, attacchi al MeToo, difese di Michael Jackson e altri comici e cantanti criticati per tweet omofobi, in sintesi un attacco frontale alla cancel culture, forte del suo spazio sulla piattaforma di streaming più famosa del mondo.
All’epoca fu massacrato dalla stampa che piace alla gente che si piace, New York Times, Atlantic, Vice, Huffington Post, Vox, lo attaccarono senza pietà. Chi però gliela giurò furono soprattutto gli “alphabeth people”, cioè il movimento LGBTQ che ha preso in ostaggio mezzo alfabeto e che non bisogna assolutamente offendere. Tra loro, chi lo vorrebbe davvero cancellare dalla faccia della Terra sono in particolare i transgender, che Chappelle sfotte senza pietà. Anche i migliori però alla lunga patiscono il gioco al massacro che il progressismo illiberale fa nei confronti di chi non passa le sue giornate a chiedere scusa a tutte le minoranze per la propria esistenza, e The Closer, pur essendo uno spettacolo godibilissimo, sembra più un manifesto (condivisibile in molti passaggi) per una battaglia culturale che uno show comico.
Essere nero non è abbastanza
Dave Chappelle è davvero scorretto (avvertenza per i più sensibili, è anche molto volgare), ma ha un vantaggio – ci scherza lui stesso – che gli permette di superare indenne diversi gradi di censura: è nero. Ma nella gara tra minoranze oppresse, non basta più. Anche perché Chappelle è anche miliardario, eterosessuale, famoso, sposato con figli e forse segretamente pro-life. Il fatto è che piace, viene visto da milioni di persone in tutto il mondo e questa cosa fa guadagnare moltissimo Netflix. E qui veniamo alle recentissime polemiche su The Closer, dove Chappelle prende di mira ebrei, bianchi, neri, femministe, lesbiche, gay e trans, arriva a dire cose oggi inaccettabili come: gli uomini hanno il pene, le donne la vagina, la loro rimozione non cambia il genere, che è «un dato di fatto».
Per questo lui stesso è stato definito Terf (trans-exclusionary radical femminist), come la Rowling («Non sapevo nemmeno cosa volesse dire… ma so che i trans inventano parole per vincere le discussioni») e a Netflix è successo il finimondo. Alcuni dipendenti hanno protestato ufficialmente conto la messa in onda di The Closer perché offende le minoranze, sono stati licenziati per comportamento inappropriato ma poi reintegrati, e mercoledì scorso diversi di loro sono scesi in strada durante l’orario di lavoro per opporsi allo show. Ted Sarandos, capo dei contenuti di Netflix, ha prima fatto sapere che non se ne parla di rimuovere The Closer, poi ha chiesto scusa (grande classico dei nostri giorni) dicendo di avere fatto «un gran casino» ma poi ha lasciato lo show di Chappelle disponibile sulla piattaforma.
Se fa fare soldi, viva la libertà d’espressione
Evviva la libertà d’espressione, evviva una major che finalmente ha il coraggio di dire di No a una richiesta pur veemente di una minoranza che si sente offesa. Ma come sottolineava Seth Moskowitz su Persuasion, tradotto giovedì scorso da Domani, fare affidamento agli interessi commerciali per avere garantita la libertà di parola non è la cosa migliore da fare. Netflix – che inonda i nostro device con film e serie tv con storie edificanti su gay, trans e lesbiche, film femministi e pullula di personaggi bianchi etero negativi – fa soldi con un comico che prende in giro quella cultura dominante di cui anche la piattaforma streaming è portavoce, ma lo difende perché «è il nostro spettacolo di cabaret più visto».
Viva il mercato, in questo caso, anche se, fa notare Moskowitz, «se gli incentivi di mercato dovessero cambiare, Netflix potrebbe fare lo stesso in futuro. Ad ogni modo, rallegriamoci quando gli incentivi al profitto e la difesa della libera espressione vanno nella stessa direzione. Non illudiamoci però che gli interessi economici siano sempre un baluardo contro l’illiberalismo».
Solo i “famosi” possono criticare?
E no, Chappelle non è la dimostrazione che la cancel culture non esiste e che in realtà si può dire quello che si vuole. Quanti comici emergenti che dicessero cose analoghe a quelle di Chappelle verrebbero lanciati e poi difesi? Probabilmente nessuno. Chappelle altri della fornitissima scuderia Netflix possono permettersi di dire certe cose perché sono ormai noti al grande pubblico. Il rischio è quello di vivere in una società dove alcuni fortunati avranno la forza e lo spazio per criticare la cultura dominante (è anche il caso di Bari Weiss, giornalista del New York Times così famosa da non essere stata ridotta al silenzio per il grande seguito che ha), mentre chi non ha seguito o non porta guadagni per chi gli dà lavoro dovrà autocensurarsi o subire danni professionali e personali perché magari, à la Chappelle, dice che «tutti nascono da una vagina».
Il prossimo passo, lo annunciava un editoriale del New York Times riguardo alla storia di un allenatore di football licenziato perché sono state rese pubbliche alcune sue email private in cui faceva commenti omofobi e razzisti, è colpire non solo chi dice certe cose “inaccettabili”, ma anche chi, tacendo, lascia intendere che sia “ok” dire o pensare certe cose. Noi spettatori di Dave Chapelle siamo avvisati.
Fonte: Piero Vietti | Tempi.it