Pare che ci sia stata una “bufera social” – chissà perché si debba sempre esagerare, non bastava dire “qualche polemica”, qualche tweet, qualche titolo di giornale e soprattutto commenti frettolosi e superficiali – sul professor Barbero, reo di essersi chiesto “se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. È possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi? Credo sia interessante rispondere a questa domanda. Non ci si deve scandalizzare per questa ipotesi, nella vita quotidiana si rimarcano spesso differenze fra i sessi”. Cioè, praticamente un’ovvietà, e per di più formulata come un’ipotesi. Ma no, non si può dire. Semplicemente non si può neppure ipotizzare che uomini e donne siano diversi.
Se ne avessi facoltà, comminerei a tutti coloro che si sono scandalizzati per le parole di Barbero la lettura, anzi lo studio a memoria di un libro che sto leggendo mentre praticamente faccio una ola da sola a ogni pagina. Sai quando leggi qualcosa che nessuno intorno a te dice con tanta autorevolezza, e pensavi di essere quasi solo al mondo ad affermare, e scopri che siete almeno in due, e ti viene una voglia di irrefrenabile di correre a comprare delle copie da regalare a tutti? Ecco, ogni tanto capitano questi miracoli. Il libro è Sex and the unreal city, la demolizione del pensiero occidentale, di Anthony M. Esolen, edito dal Timone.
È un ritratto a tinte fosche e appassionate della produzione (cosiddetta) culturale contemporanea, che mostra come sia fondata su un tenace, continuo, ostinato progetto di combattere la realtà, di cancellarla, di negare tutti i dati di natura, di imporre la dittatura dell’autodeterminazione, di ciò che sento, dell’opinione.
Avverto: non è una lettura semplice. Intanto perché è un po’ sconfortante, poi perché ricca di riferimenti alla cultura anglosassone, che, almeno io, non conosco così bene. Però è una lettura che va fatta, perché smonta con competenza i fragili, ridicoli pilastri della cancel culture. Qualcosa che l’autore conosce bene, venendo dal mondo accademico americano – quello per capirci dove non si studiano più né Omero né Eschilo perché “alimentano stereotipi” – e avendo per ciò stesso deciso di lasciarlo, per insegnare in un più onesto liceo dove non deve obbedire ai diktat in cambio della carriera. L’Homo Academicus Saecularis sinister è convinto che Omero, Platone, Aristotele, Cicerone, Virgilio, San Paolo e Sant’Agostino “a quanto pare sono inutili per lo sviluppo intellettuale. Tutti in qualche maniera siamo degli sciocchi: ci sono gli sciocchi che lo sanno e gli sciocchi che non sapendolo sono ancora più sciocchi dei primi. Le università sono in gran parte gestite da quest’ultima categoria”. Un problema che non riguarda solo le materie umanistiche, secondo Esolen. È vero, fino a certi limiti gli scienziati rimangono fedeli alle leggi della loro disciplina, ma solo perché la brutale realtà confuterebbe i loro errori o bugie (l’aereo, per dire, non volerebbe). Ma a volte anche gli ambiti scientifici si lasciano influenzare dalla “politica ciarlatana, la quale, in piedi sulla sua scatola di sapone, ondeggia a destra o a sinistra la sua grossa pancia, farneticando sulla fine del mondo, o sull’inizio di un mondo nuovo e più avanzato, o riguardo a entrambe le cose contemporaneamente. Abbiamo visto tale ciarlataneria manifestarsi nei modelli matematici riguardanti i cambiamenti climatici e nell’interpretazione dei loro dati” (ogni riferimento a recenti premi Nobel è puramente casuale, ndr).
L’ambito nel quale si concentrano particolarmente gli sforzi (a negare l’evidenza ci vuole un bell’impegno) di questa pseudocultura, generata come dice Esolen dalla “sinistra pubica”, è il tema della differenza sessuale. L’accanimento col quale oggi si vuole in modo isterico e affannoso cancellare tutto ciò che afferma la differenza fra uomo e donna deve davvero farci riflettere. Perché questa smania? Che c’è di male nel dire quello che è sotto gli occhi di tutti, e cioè che uomini e donne sono diversi, che hanno pari dignità ma caratteristiche peculiari non sovrapponibili, che sono fatti per funzionare insieme, per essere complementari?
L’affermazione di Barbero, per esempio, è semplicemente la rilevazione di una realtà. Le donne possono essere ottimi ingegneri, fisici e tutto il resto, che barba, mi annoio da sola a dirlo, trovo persino offensivo affermarlo. È ovvio. Ma le gerarchie nel mondo del lavoro non sono determinate solo dalle capacità intellettuali. Lo sappiamo tutti, ognuno che frequenti il mondo del lavoro deve per forza averlo sperimentato, che non sempre i migliori sono quelli che fanno più carriera. Le qualità non bastano, anzi a volte sono ininfluenti e in certi casi persino controproducenti. Molto spesso a fare carriera sono i mediocri, perché il sistema tende a proteggere sé stesso, e quindi sceglierà di mettere alla guida pedine che garantiscano il mantenimento dello status quo. Tra l’altro spesso le donne – Eva docet – sono ribelli e allergiche alla disciplina (il famoso teorema del gatto inglese, ma magari lo racconto un’altra volta). Per emergere nei sistemi di potere occorre determinazione e quasi sempre la voglia di avere il potere di prevalere sugli altri, che in alcuni casi si trasforma anche in prepotenza.
Di solito, e dico di solito, alle donne interessa di meno, perché raramente una donna riceve la propria identità prevalentemente dalla propria realizzazione professionale nella misura in cui questo succede per gli uomini. Ci sono, sì, donne che arrivano a posizioni apicali solo grazie alla competenza, riuscendo a imporre uno stile femminile nel loro ambiente di lavoro, ma sono casi isolati (una è una mia cara amica primario). Non stiamo discutendo dunque dell’indiscutibile, cioè del fatto che le donne sono brave, ma di quanto siamo costrette e disposte a pagare in termini di rinunce personali.
Io infatti uscirei dalla logica piagnucolosa e rivendicativa boldrinianmurgiana, e direi che secondo me poche donne arrivano al potere un po’ per i motivi ipotizzati da Barbero, un po’, io direi soprattutto, perché a moltissime donne non interessa il potere fine a sé stesso. A tante di noi piace lavorare bene, contribuire a migliorare la vita degli altri attraverso quello che sappiamo fare, ma non ce ne importa molto di prevalere sugli altri, non nella sfera professionale (poi mi spiego). Noi vogliamo avere tempo per le tantissime cose – persone, relazioni – che rendono la nostra vita felice e piena. Noi, banalmente, siamo madri se ci capita di ricevere questo enorme regalo per i primi anni di vita dei bambini desideriamo esserci, essere presenti in una misura che non è quella dei padri (le madri allattano, i padri no, tanto per dirne una). Il punto è questo: lo desideriamo. Non è che siamo costrette dalla società cattiva e patriarcale a stare coi figli, a noi proprio interessa. Si continua a parlare solo di come rendere le donne più libere dalla maternità, mai di come rendere le lavoratrici più libere dal lavoro PER la maternità. Se arrivasse Draghi in persona da ogni giovane neomamma e le offrisse un’autista, un cuoco, una colf, una baby sitter, la mamma vorrebbe lo stesso stare col suo bambino (va bene, ammetto che qualcuno di questi aiuti io li avrei pure accettati volentieri, così magari avrei potuto ogni tanto dormire qualche ora, o fare una doccia senza fiondarmi fuori dal bagno grondante perché qualcuno aveva attaccato a piangere all’improvviso talmente disperato da farmi ipotizzare che un orso marsicano gli stesse ciancicando la testolina, e invece era solo caduto il coniglio Tetenno dal lettino).
Noi donne occidentali, e forse le italiane in particolare, siamo state condizionate da anni di propaganda, perché avvertissimo come un peso i figli, e purtroppo la cosa ha anche funzionato: sempre meno donne fanno figli. Ma quando li fanno, allora la natura fa il suo corso. Le madri desiderano accudire i loro figli. Non perché hanno letto la Bibbia o i libri cattofascisti, ma perché ogni singola cellula del loro corpo chiede questo. Si chiama natura. Si chiama realtà. I bambini vogliono la mamma, e hanno diritto ad averla. Se un bambino di pochi mesi piange perché la mamma lo lascia troppo presto, non è che sia stato plagiato da chissà quali letture. È semplicemente un dato di realtà, che forse andrebbe valutato. Il mondo del lavoro ha logiche e tempi e ritmi maschili che noi donne rifiutiamo, non perché siamo meno ambiziose degli uomini, ma perché lo siamo in modi diversi. Non vogliamo gli stessi diritti degli uomini, ne vogliamo altri. Io non voglio l’uguaglianza di genere, io voglio la differenza.
Tutt’altro discorso è da fare se parliamo di relazioni. Qui la donna altro che poco sicura e poco spavalda. Provate a toccare un figlio, o un uomo a una donna. La donna non è certo meno aggressiva dell’uomo, ma lo è in modi e per obiettivi diversi. In una prospettiva di fede si deve dire che l’uomo e la donna sono entrambi feriti dal peccato originale, e in egual quantità, ma diversa qualità. La donna vuole il potere nelle relazioni, e che lo eserciti in modo dimesso, manipolatorio, o in modo controllante, di solito ce l’ha. Questo se parliamo di donna naturale, di donna non riconciliata con Dio, non consegnata a Lui. Maria è la donna totalmente aperta alla relazione con Dio, e quindi accogliente, capace di generare vita, di custodirla, di fare spazio, di mettere in moto il bene con creatività e libertà straordinarie. Eva è la donna che vuole solo essere se stessa. In mezzo ci siamo noi, che faticosamente, facendo un lavoro su noi stesse, cerchiamo di passare dalla donna naturale, Eva, alla donna riconsegnata, Maria, e stiamo un po’ in mezzo al guado, chi più di qua chi più di là.
Eva esercita il suo potere nelle relazioni, altro che poco spavalda e poco sicura. La donna può essere capace di cattiveria esattamente come l’uomo, ma con una malizia e una sottigliezza che all’uomo manca (la donna ha sei radar nel cervello, l’uomo mezzo, e un po’ arrugginito). La donna fatica a stare in una relazione paritaria con l’uomo, e allora o cerca di controllarlo, o fa la bambina piccola, bisognosa di protezione, che è un modo di imporre la sua volontà. Sono entrambi modi di esercitare il controllo sull’uomo, e di solito Eva ci riesce alla grande. Le femministe sempre in video a parlare del potere sociale schiacciante degli uomini sulle donne – questo problema che è frequente come l’unicorno – sono proprio la dimostrazione che le donne non sono vittime. O meglio, esattamente come gli uomini, sono captivae, cioè prigioniere del peccato originale. O se vogliamo usare termini accettabili anche dai non credenti, donne e uomini sono segnati in modi diversi da quella radice di male che c’è nell’inconscio di ognuno di noi, e se capiamo che stiamo combattendo la stessa battaglia, contro lo stesso nemico, su due fronti diversi, forse possiamo uscire da questa logica, e magari tornare in questo strano esotico bizzarro luogo chiamato mondo reale.
Fonte: Costanza MIRIANO | costanzamiriano.com