La nascita di una nuova università dovrebbe essere sempre motivo di gioia. Ci sono casi però in cui questo evento offre anche molto materiale per riflettere. È il caso della neonata University of Austin, fondata col proposito di reagire alle storture e alle pressioni della cancel culture e del politicamente corretto oramai dominanti all’interno di gran parte degli atenei americani.
Austin contro la deriva illiberale
La nuova università si vuole contrapporre alla “deriva illiberale” presa da gran parte degli atenei americani. Si professa “indipendente” e vuole difendere la libertà dei propri docenti dalla censura e dall’asfissia dell’ortodossia progressista e della filosofia woke. Tra i sostenitori e fondatori figurano nomi importanti dell’élite americana, come l’ex segretario del Tesoro e già presidente di Harvard Larry Summers, l’ex giornalista del New York Times e oggi direttrice del Substack Common Sense Bari Weiss e star mondiali dell’accademia quali Steven Pinker e Niall Ferguson.
Tra i docenti stabili ci saranno Peter Boghossian e Kathleen Stock. Boghossian si è dimesso dalla Portland State University poiché convinto che l’università «ha trasformato un bastione della libera ricerca in una fabbrica di giustizia sociale». Stock ha lasciato l’Università del Sussex dopo aver ricevuto pressioni e critiche a causa del suo lavoro che si chiedeva se l’identità di genere fosse più importante del sesso biologico. Altre vittime dell’irrazionale e giacobina deriva progressista arriveranno presto ad Austin e dal 2024 l’università dovrebbe lavorare a pieno ritmo.
Un segno di libertà?
E qui entrano in gioco alcune riflessioni sul nuovo esperimento. La prima è chiedersi se sia un segno di libertà o meno la necessità di fondare un nuovo ateneo per fronteggiare un conformismo culturale che spesso sconfina nell’omologazione assoluta verso un unico credo, nel disprezzo e nella repressione di idee e posizioni differenti, nel condizionamento di contenuti e materie da insegnare. Perché, con la grande offerta accademica che esiste negli Stati Uniti, si è costretti a fondare una nuova università per esprimere – si badi bene – le proprie posizioni accademiche e di ricerca?
Qui non stiamo parlando dell’università del sovranismo o del trumpismo, non si tratta di una reunion di attivisti alt-right ma di accademici di orientamento per lo più liberale che sono stati aggrediti dal nuovo giacobinismo progressista. Non ci sono razzisti, suprematisti, estremisti nel corpo fondante della University of Austin. È davvero possibile che si debba arrivare alla secessione dal sistema universitario e dai suoi standard moralistici per fare ricerca ed insegnare liberamente? Insomma, se da un lato il mercato americano è abbastanza vivace da offrire la possibilità di nuovi esperimenti, dall’altro la nascita della nuova università certifica l’impossibilità di convivere con l’ortodossia.
Il woke mangia i propri figli
Un blocco quasi monolitico che mette ai margini non soltanto conservatori o repubblicani dichiarati (e già sarebbe comunque grave), ma anche cristiani, cattolici, liberali non conformisti, libertari e in certi casi persino i marxisti che non sposano fino in fondo la morale progressista. È una rivoluzione che, come si vede dalla composizione della University of Austin, mangia in continuazione i propri figli. E che mette a repentaglio la libertà non soltanto di parola, ma anche quella d’insegnamento e di ricerca, l’elemento più trascurato e delicato di tutta la questione relativa al politicamente corretto.
Cos’è la scienza se non possibilità di confutare verità e formulare ipotesi? Cos’è la ricerca se non un dialogo tra diverse interpretazioni? Questo scambio è sempre meno ammesso nel circuito accademico americano, con grave pregiudizio per la ricerca e per la varietà dell’offerta formativa. L’università dovrebbe insegnare come pensare, non cosa pensare. Purtroppo, una schiacciante maggioranza, che a tratti mostra venature totalitarie, ritiene che ci sia un credo da imporre invece che un dialogo da coltivare. In questa voluta ricerca di polarizzazione tutte le mediazioni, i compromessi, i ponti tra diverse posizioni etiche e politiche sono saltati.
Cultura e politica polarizzate
Nella vecchia Europa le “professioni di fede” e le “epurazioni” così come le accademia sovietiche delle scienze sono state il segno di tempi bui e anticamera della repressione. Gli Stati Uniti sono ancora troppo giovani e ingenui come nazione per immaginare simili scenari. Tuttavia, c’è un parallelo da cogliere nella storia americana. Nel 1860 la guerra civile scoppiò proprio perché due parti del paese diverse sul piano culturale, sociale ed economico non riuscivano più a convivere tra loro.
Oggi i progressisti, in veste di nuovi puritani, si sono fatti portatori di una crociata culturale, la culture war, che sta producendo una polarizzazione culturale e politica senza fine. Nei college questa crociata ideologica è particolarmente sanguinosa e crudele, tocca i nervi della libertà accademica e allestisce gentili purghe. La risposta della University of Austin è una secessione da un programma culturale che non tollera più la convivenza con chi la pensa diversamente. Quanto questa foga rivoluzionaria, che aggredisce il linguaggio e vuole imporre la sua storia, contribuisce a destabilizzare, dividere, indebolire gli Stati Uniti?
Con l’egemonia si convive, con il fanatismo no
Il problema non risiede tanto nel fatto che i progressisti siano maggioranza nel mondo accademico. Così è sempre stato e chi da posizioni differenti intraprende la carriera accademica ne è consapevole, in America come altrove. Con l’egemonia si può convivere, con il fanatismo no. La gravità del problema risiede nell’intolleranza irragionevole, sempre più ampia, cieca e dai tratti polizieschi, che la maggioranza progressista esercita nei confronti della minoranza.
Nel tribunale politico, che spesso si nutre anche del fascino che questo moralismo estremista esercita sugli studenti, allestito oggi dal mondo accademico progressista verso tutti gli altri colleghi, la risposta dei “non allineati” è la fuga, la secessione, la creazione del nuovo, ma a che prezzo per tutti? E con quali perdite nel dialogo e nell’arricchimento reciproco tra studenti, università e docenti? La deflagrazione dell’università rischia di essere l’antipasto della frammentazione dell’intera comunità americana.
Fonte: Lorenzo Castellani | Tempi.it