È forse una cosa, la bimba ucraina dal nome di fata, è forse una schiava? Si comprano e regalano le cose, non i bambini. A meno che non si tratti di schiavi. Chi potrebbe vedere una cosa o una schiava nella bambina commissionata e abbandonata da una coppia italiana in Ucraina per 15 mesi? La madre “intenzionale” che l’ha lasciata a Kiev dicendo «che c’entro con lei»?
Ce lo chiediamo mentre qualcuno, al seguito dell’Associazione Luca Coscioni, sta usando il caso per promuovere la maternità surrogata “altruistica”. O “solidale”, come piace a giornali e radicali chiamare la fornitura di figli «per amore» e non per denaro, come accade in Ucraina. Ce lo chiediamo mentre si parla molto di amore in antitesi ai soldi, per non parlare del nocciolo della vicenda: «Il problema non riguarda la tecnica in questione», ripete Filomena Gallo che cova una bozza di norma sulla gestazione “solidale” dal 2016, sottolineando che «l’abbandono è un fenomeno che prescinde dalla tecnica» e che anzi, «solo una legge evita scenari di incertezza, che i proibizionisti invece di ostacolare continuano a fomentare».
La farsa della maternità surrogata solidale
La “tecnica in questione” prevede la produzione conto terzi di un figlio, nel caso specifico una bambina prodotta con i gameti di una donna, portata in grembo da un’altra, cresciuta da un’altra ancora, abbandonata da quella che aveva innescato la procedura. La “tecnica in questione”, scontrini alla mano, ha reso l’utero “altruistico” nei paesi in cui è legale, come in Canada, l’anello centrale di un infernale business a molti zeri (se la madre surrogata riceve “solo” dei rimborsi, l’intera pratica tra agenzie, medici, avvocati, cliniche per la fertilità può costare ai committenti oltre 75 mila dollari). Un’industria for profit dove tutti vengono pagati tranne chi ci mette «la gentilezza del cuore» e che in Inghilterra ha sdoganato il commercio dei bambini un anno fa. Infine, la “tecnica in questione” si presta ad abusi e contenziosi registrati dalla California alla Thailandia, contratti sventolati e avvocati scomodati quando il committente rifiuta merce difettosa, gestanti che si rifiutano di scartarla. Si presta alle rivincite della realtà sul progetto e il laboratorio, quando, guardando quel prodotto, si capisce che prodotto non è: è già accaduto in Ucraina, e pare sia accaduto anche a Kiev, circa un anno fa.
«Che c’entro con lei?». Sono precisi i virgolettati attribuiti dai giornali alla madre “intenzionale” della bambina dal nome di fata, ascoltata in procura a Novara due settimane fa. «Non la sentivo come mia figlia, mi dicevo: che c’entro io con lei? Non ce l’ho fatta». Per questo, dopo averla incontrata e riconosciuta, la donna è rientrata in Italia solo col marito. Ora i legali negano «tassativamente che la coppia volesse abbandonare la bambina», ma per mesi si è presa cura di lei una tata prima di chiedere aiuto al consolato italiano. Da qui il rimpatrio della piccola e l’accoglienza in una famiglia affidataria in attesa di adozione.
L’irrompere del buon senso con l’ispettore e la pediatra
Nessuno di noi l’ha vista, eppure la sentiamo tutti già “nostra”: è allegra, sana, gioiosa, racconta chi si è preso cura di lei, dalla tata alle forze dell’ordine. Persone che ci hanno fatto sentire “a casa”, così diverse da quei coniugi «additati come protagonisti di aberranti comportamenti» (dicono ancora i loro legali). Ci rincuorano le interviste all’ispettore Antonio Ricci, sbirro “vecchio stampo” e padre, che in 23 anni di carriera non era mai tornato da una missione senza un pericoloso ricercato o un boss mafioso in manette, bensì facendo la pappa a una bambina sorridente.
Ci rincuora la pediatra e madre Carolina Casini, volata con l’ispettore a Kiev – una vita sulle navi di migranti e nella striscia di Gaza –, che dopo averci raccontato la premura infinita e la disperazione per il distacco della tata (una tata che «ha surrogato l’amore genitoriale alla perfezione»), è stata capace di parole nettissime: «Ho visto tante situazioni difficili di minori, dai migranti a rischio della vita in mare alle missioni umanitarie in giro per il mondo, fino a bambini gravemente ammalati e senza la possibilità di curarsi. Ma questa vicenda è stata allucinante, assurda, ho avuto un vero e proprio shock e ho tanta rabbia. Un figlio non è un oggetto». E ancora: «Spero che sia un monito a non ripetere questo orrore. Forzare la natura per far nascere un figlio e poi abbandonarlo…».
L’intenzione non basta. E nemmeno l’amore
Ci hanno rincuorato questi adulti, la tata di mezza età che ha raggiunto il consolato col cuore in pezzi perché non poteva più giustificare la presenza di una neonata non “sua”, lo schivo ispettore Ricci e la dottoressa Casini, mentre la vicenda giudiziaria della bambina si ingarbugliava e i giornali titolavano articoli con quella frase sprezzante – «che c’entro io con lei?» – della donna che trovandosela davanti ha deciso di tornare indietro. Forse sarà una delle frasi che a mezzo avvocati negherà di avere pronunciato, ma per riuscire a stare davanti a una bambina di 15 mesi che scende da un aereo in braccio agli agenti dello Scip bisognerebbe davvero avere il coraggio e l’onestà di andare a fondo di questa domanda.
Cosa ha visto questa donna guardandola? Forse non una figlia da portare in Italia subito, per cui sfidare anagrafe e burocrazia, forse solo una bambina nata dal seme di suo marito e gli ovociti di un’altra donna, portata in grembo da una terza. Forse solo la verità: che a prodotto ultimato l’intenzione non basta. Nemmeno i soldi. E nemmeno l’amore a un progetto che muove intenzioni e soldi.
Come si fa a paragonare adozione e surrogata?
«Non si tratta di come un bambino nasce ma dell’amore che si è disposti a dargli», ha detto Maria Sole Giardini, consigliera generale dell’Associazione Luca Coscioni che si è offerta col marito di adottare la piccola. Giardini è affetta dalla sindrome di Rokitansky e si batte per l’utero altruistico perché «non posso avere figli se non attraverso la gestazione solidale per altri, perché non ho nel mio corpo la culla dove consentire che un embrione si annidi e cresca». Ma chi paragonerebbe una scelta generativa come l’adozione, l’amore e non solo dato da due genitori a un bambino bisognoso e senza adulti in grado di rispondere al suo bisogno, con la procreazione a solo scopo e puro intento di creare un bambino bisognoso e da dare ad altri genitori? Eppure è il paragone più scomodato per giustificare l’aberrante pratica dell’utero in affitto o per affetto.
I bambini non sono cose, nemmeno se ce li scambiamo gratis. Non sono merce, nemmeno se valgono i costi della surrogata. Non sono beni disponibili, nemmeno per amore, perché non sono nostri. A meno che non siano schiavi. Ma chi, guardando la bambina dal nome di fata, ci vedrebbe una cosa, una schiava?
Fonte: Caterina GIOJELLI | Tempi.it