Si chiamava Emad Al Swealmeen l’uomo che ha cercato di compiere un attentato suicida a Liverpool. Al Swealmeen era un immigrato giordano, richiedente asilo. Convertito al cristianesimo nel 2015. Perso di vista da tutti dal 2018. Un caso molto singolare e delicato su cui sono state scritte delle gran brutte pagine di giornalismo.
Si chiamava Emad Al Swealmeen l’uomo che ha cercato di compiere un attentato suicida a Liverpool, esploso assieme al suo ordigno a bordo di un taxi nei pressi dell’ospedale femminile. Al Swealmeen era un immigrato giordano, richiedente asilo, con una storia di problemi psichiatrici alle spalle. E una conversione al cristianesimo anglicano. Si faceva chiamare Enzo, in onore di Enzo Ferrari, poiché era anche un grande appassionato di motori. La sua vicenda, molto singolare nella storia del terrorismo suicida, presenta ancora molti punti oscuri. E purtroppo ha esposto un brutto modo di fare giornalismo.
Al Swealmeen, stando alle informazioni rilasciate dalle autorità, aveva 32 anni al momento dell’attentato. Da bambino aveva trascorso un lungo periodo in Iraq, terra natale della madre. La prima sua traccia nel Regno Unito risale al 2014, quando venne assistito per la prima volta da Asylum Link, un’organizzazione di volontari di Liverpool che aiuta i richiedenti asilo e i rifugiati. Due i primi grandi problemi: a quanto risulta aveva mentito sulla sua terra di origine, dichiarandosi siriano, per poter facilitare la pratica di asilo. La Giordania, contrariamente alla Siria, non è in guerra. Ma nessuno gli credette. Aveva anche già creato problemi di ordine pubblico, al momento della richiesta di asilo: era infatti stato fermato dalla polizia, perché minacciava gente a caso, con un coltello, su un cavalcavia di Liverpool.
Il futuro (mancato) attentatore di Liverpool ricompare nel 2015, un anno dopo che le autorità britanniche gli avevano rifiutato l’asilo politico. Iniziò a frequentare la cattedrale di Liverpool e chiese di convertirsi al cristianesimo. Dopo un corso di base sui rudimenti della fede cristiana, venne infine battezzato. Frequentò la cattedrale di Liverpool e l’attività diocesana fino al marzo del 2017, quando venne confermato con la cresima. Da allora, Al Swealmeen era anche ufficialmente un cristiano anglicano. I racconti che lo riguardano, in quel periodo sono idilliaci e provengono soprattutto da Malcolm ed Elizabeth Hitchcott, un ex militare e sua moglie, attivi in un’associazione caritativa cristiana. «Viveva per strada, fondamentalmente. Arrivò da noi nell’aprile del 2017, rimase con noi per otto mesi. Durante quel periodo, abbiamo visto in lui sbocciare la fede cristiana. Ogni notte eravamo soliti pregare, mia moglie e lui e se c’era qualcun altro in casa, pregavamo per mezzora e studiavamo le Scritture e passavamo del gran bel tempo assieme». Mostrò, in questo periodo, anche la sua passione per i motori. Voleva diventare un pilota di go kart. Sui social network si faceva chiamare Enzo Almini, nome e cognome italiano, un omaggio ad Enzo Ferrari, ma anche un evidente tentativo di rompere con la sua origine mediorientale. Però l’asilo politico non l’ottenne comunque, nemmeno nel 2017: perse il suo ricorso in appello.
Nel 2018 Al Swealmeen scomparve dalla scena, di nuovo. L’associazione Asylum link non lo vide più dal 2017. La famiglia Hitchcott perse le sue tracce dal 2018. Nello stesso anno cessò di frequentare la chiesa. Ad oggi non sappiamo nulla di quel che avvenne in questi ultimi tre anni di vita di quello che sarebbe diventato un attentatore suicida. Tre anni che comprendono i venti mesi di pandemia e tanti altri eventi che possono aver innescato o un impazzimento o un ritorno ad un islam radicale. Questo è ancora il lato oscuro della vicenda, personale e terroristica, di Emad “Enzo” Al Swealmeen.
Oscuro anche il movente. L’attentatore mancato non era fra i sospetti dei servizi segreti inglesi. I quattro presunti complici, arrestati fra domenica e lunedì, sono stati rilasciati dopo un primo interrogatorio. Da quanto si sa finora Al Swealmeen avrebbe agito da solo, costruendo una bomba rudimentale che, al momento buono, avrebbe funzionato anche male (il tassista David Perry, che lo ha inconsapevolmente accompagnato sul luogo del delitto, è infatti vivo, nonostante fosse a contatto con l’attentatore). Finora non sono emersi contatti con Al Qaeda, con l’Isis o con qualsiasi altra sigla terroristica. Né sono note altre matrici. Si sospetta una sua vendetta personale contro le autorità che gli hanno negato l’asilo, nonostante il suo impegno a cambiare vita. Però non si hanno certezze neppure sul suo reale obiettivo: la cattedrale di Liverpool, in cui era in corso la funzione religiosa in memoria dei caduti di guerra, con tutte le autorità presenti? Potrebbe essere stato quello il vero obiettivo, stando anche alla testimonianza del tassista. Ma la scelta di ripiegare sull’ospedale femminile, dopo un blocco stradale, è ancora difficilmente comprensibile. Voleva proseguire a piedi, da lì al suo obiettivo? O mirava a seminare morte in un ospedale?
In mezzo a tutta questa confusione, purtroppo, sono state scritte pagine di brutto giornalismo, soprattutto nel Regno Unito. I media hanno infatti atteso un tempo incredibilmente lungo prima di dare la notizia dell’attentato, quasi 24 ore prima di parlare di “terrorismo”. Come se avessero paura ad ammettere un secondo attentato in un mese, dopo l’uccisione del deputato David Amess, da parte di un radicale islamico somalo. Eppure la polizia aveva incominciato quasi da subito un’indagine per “incidente terroristico”. L’identità dell’attentatore è stata rivelata molto tardi dalla polizia, ma da subito si è data notizia che l’attentatore fosse mediorientale. Questo pare abbia causato diversi problemi ai musulmani di Liverpool, che sono stati oggetto di aggressioni, stando all’interrogazione parlamentare di Kim Johnson, «il mio team riporta incidenti in cui donne col hijab stanno subendo maltrattamenti». Quando poi si è saputo il nome del mancato attentatore e la sua conversione al cristianesimo nel 2015, tutti i quotidiani britannici hanno sparato l’aggettivo “cristiano” in prima pagina, come per distogliere tardivamente la rabbia degli inglesi dalla comunità musulmana. E però, in questo modo, hanno creato il caso del primo attentatore cristiano kamikaze nella storia del terrorismo suicida. La fede non viene più menzionata (per motivi deontologici) quando a compiere attentati sono musulmani radicalizzati, che hanno ucciso dichiaratamente nel nome di Allah. Viene invece sbandierata adesso, per un attentatore che si era convertito nel 2015, ma che non frequentava più la sua chiesa dal 2018. Giusto per permettere ai multiculturalisti di affermare i soliti due luoghi comuni più diffusi sin dal 2001: anche i cristiani uccidono, il terrorismo non c’entra nulla con l’islam.
Il titolo “il terrorista suicida era un immigrato convertito al cristianesimo” nelle sue numerose versioni, campeggia già su tutti i quotidiani e fa male a tutta la comunità cristiana. Che tanto non ha bisogno di essere protetta dall’ira popolare. O no?
Fonte: Stefano MAGNI | LaNuovaBQ.it