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Pesiamo le parole: una coltellata non è una “cavolata”

A margine della rapina in cui è stato ferito un carabiniere a Torino, la riflessione di Alberto Pellai si sofferma sul ruolo che ha nel processo educativo il nome che, come adulti, diamo agli atti e alle cose.

La cronaca ci ha raccontato di una rapina finita molto male a Torino. Un sedicenne e un diciottenne entrano in una farmacia con una finta pistola. Sopraggiunge un carabiniere fuori servizio, che tenta di sventare il colpo. Nella fuga, uno dei due rapinatori – il 16enne – accoltella in modo molto grave il carabiniere che – per fortuna – è stato dichiarato fuori pericolo dopo il delicato intervento chirurgico cui i medici lo hanno sottoposto. Alla sera il minorenne è stato accompagnato dal padre in questura per costituirsi. Possiamo solo immaginare il dolore e il disorientamento di un padre che deve portare il proprio figlio ad affrontare tutto quello che succederà dopo il reato da lui messo in atto. In un minuto si deve rivedere tutto ciò che si è stati: noi genitori per un figlio e quel figlio per noi genitori. «Mio figlio è un bravo ragazzo – ha detto il padre – Ha fatto una cavolata». In questa frase ci sono mille contraddizioni e mille ambivalenze. Ma c’è di certo anche la volontà di un padre di continuare a credere che il proprio figlio non è “sbagliato”: ha solo fatto un enorme sbaglio, di cui per legge dovrà rispondere. Questo approccio del padre sarà salvifico per il recupero del ragazzo. I figli hanno bisogno di sentire che un padre, di fronte al tuo errore, continua a credere che tu non sei sbagliato.

Però credo sia utile riflettere sulle parole che sono state usate. Una rapina e un “tentato omicidio” possono essere considerati solo una “cavolata”? Il ragazzo stesso, parlando del reato commesso, ha affermato «Ho combinato un casino». Forse dobbiamo proprio ripartire da qui, con i nostri figli adolescenti. Dalla necessità di dare alle parole il peso e il valore che hanno. Una rapina, un accoltellamento potenzialmente mortale non possono essere raccontati come “una cavolata” oppure come “un casino”. Sono reati. Della peggior specie. Implicano procedimenti penali, restrizioni della libertà, danni enormi alla vita altrui e alla propria. Gesti messi in azione in pochi minuti, hanno conseguenze per anni. E a volte quelle conseguenze – quando ferisci o uccidi qualcuno – durano per sempre. Crescere un figlio significa renderlo responsabile non solo di ciò che fa, ma anche di ciò che è. Ovvero, insegnargli ad usare il proprio potere d’azione e la propria autonomia – una volta che non è più il “copione dell’obbedienza” a guidarlo – per fare cose buone, per costruire il proprio presente e il proprio futuro.

Sono infinite le traiettorie di crescita attraverso le quali i nostri figli possono trasformarsi in autori di crimini e reati. Potrebbe capitare a tutti. E non serve a molto dire: «tutta colpa della famiglia». Le colpe le stabilisce la legge.

A noi genitori ed educatori serve invece parlare di responsabilità educativa. E su questo c’è davvero molto lavoro da fare. Perché la leggerezza etica e morale con cui si valutano azioni che hanno significati simbolici e reali enormi spesso si denota anche dall’uso delle parole, che come in questo caso, sembrano minimizzare la portata e l’entità del danno prodotto. Nel raccontare ai nostri figli e studenti questo fatto di cronaca, insegniamo loro ad usare le parole che servono per definirne l’enormità. Ciò di cui si parla non è una “cavolata”, né tanto meno “un casino” e pensare che siano queste le parole per definirlo fa apparire tutto come un semplice incidente con esiti imprevisti. Avere in mano un coltello, entrare in farmacia per fare una rapina sono reati, crimini tra i peggiori che espongono noi e gli altri a conseguenze gravissime. Partiamo da qui: dal dare alle parole il peso e il valore che hanno.

Fonte: Alberto PELLAI | FamigliaCristiana.it

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