Da cento settimane, ogni lunedì, ci sediamo insieme all’Ultimo banco. Ne è valsa la pena? Per me sì, altrimenti mi sarei perso molte più volte di quanto mi capiti abitualmente. Il dilagare comunicativo, di cui la rete e i social sono il capolavoro, mostra un bisogno primario, iniziato con il primo vagito della nostra fragile vita che si ribella alla solitudine e alla paura: «guardami, ascoltami, tienimi presente», cioè «rendimi presente». Prima un messaggio serviva a darsi appuntamento per un incontro, adesso il messaggio è l’incontro stesso: «messaggiamo» per dire «non dimenticarmi», fosse anche solo nella speranza di veder apparire le fatidiche «spunte blu». Comunico per spezzare la solitudine, ma scrivo per il motivo contrario: difenderla e amarla.
Non scrivo, libri e articoli, per non essere dimenticato ma per non dimenticare. Comunico per esistere, scrivo per far esistere. Mando messaggi, scritti o vocali, per esorcizzare la mia morte, invece scrivo per ricordarmi della vita, per scoprire e amare l’esistenza: scrivere è per me ri-esistenza, esistenza rinnovata. Così per 100 lunedì non avete letto ciò che io so, ma ciò che io ho cercato di scoprire e di non perdere per ri-esistere.
Perché? Perché scrivere per me è smettere di aver paura di vivere, mettendo al mondo il mondo, dopo averlo «gestato» nel cuore e nella testa. Per farlo devo però rinunciare al mondo-specchio delle mie brame o al mondo-orecchio del mio lamento, e cercare: il senso del mio esser qui, la bellezza dell’esistenza nonostante il dolore, la speranza nonostante l’esperienza della vita.
Comunico per difendermi dal tempo, alzando barricate: le linee temporali (time-line) di immagini, informazioni, frasi che «scorro» sui social, sono muri alzati proprio contro lo «scorrere» del tempo. La scrittura invece mi aiuta a non creare schermi contro la vita: non riempio l’ignoto di parole, ma le devo tirare fuori proprio da lì. Quando comunico ho sempre le parole, quando scrivo no. Quando comunico le uso per dire «io esisto», quando scrivo le cerco per dirmi «non aver paura di esistere». Quando scrivo strappo terreno alla mia confusione, alle menzogne che mi racconto e alla mia difficoltà di dar forma ai sentimenti, soprattutto il dolore. Quando scrivo, ascolto: per questo amo la solitudine (non l’isolamento) e il silenzio (non il mutismo), e li cerco mentre, nel teatro provvisorio del mondo, provo a recitare come posso la mia parte — di re o mendicante non conta, perché Ulisse mi ha insegnato che mendicante e re sono la stessa persona. La mia solitudine è come quella del seme nella terra, ho dentro l’inquietudine e il fermento della vita ma ho paura di spezzarmi, di non diventare quello che potrei essere.
Quando comunico uso parole ricercate, quando scrivo imparo a fatica a sillabare i suoni primari dell’esistenza: «ti amo» e «morirò». Quando comunico aspetto conferme, quando scrivo non le cerco se non dall’opera. E quando, dopo tanto lavoro, arriva la critica, anche feroce, mi basta ricordare la lettera di una ragazza che non si è suicidata, di un padre che è tornato a casa, di un ragazzo che ha ritrovato speranza… perché hanno letto qualcosa che avevo scritto. Perché il pubblico non è un’ipotesi di mercato, ma chi, infreddolito e ferito come me, si siede allo stesso fuoco per riposarsi e, nel buio in cui è immersa l’esistenza, si rigira nel cuore e nella testa quella domanda che, per paura e per dolore, non riesce a porre neanche a se stesso. Scrivo perché ho la stessa paura e lo stesso dolore di chi si ferma a scaldarsi, e la scrittura mi dà il coraggio di non rinunciare alla domanda che tengo viva, per me e per te, come si fa con il fuoco. La vita poi risponderà, come fa sempre quando le domande arrivano alla semplicità coraggiosa delle dichiarazioni d’amore o di resa. Non scrivo per se-durre con parole che fanno godere sul momento ma lasciano infecondi, ma per con-durre a sé con parole che fanno gioire a ogni rilettura e rendono la vita più capace di vita.
Quando scrivo difendo la mia assetata solitudine perché, giunto allo sprofondo del cuore, trovo tutti: eravamo già tutti lì ma senza parole per toccarci. Così il silenzio diventa con-tatto e gli individui com-pagni (compagno, da con e pane, è chi con-divide il pane). La mia felicità è la stessa di Gemma, straordinaria cuoca langhigiana, a cui ho chiesto come fa a non stancarsi di cucinare le stesse cose da decenni: «Faccio un lavoro che amo e faccio felici gli altri». Chi cucina, chi scrive… ognuno deve trovare la sua via per conoscersi, (ri-)crearsi e nutrire la vita. Non scrivo perché sono bravo a scrivere, ma perché non sono bravo a vivere. E mi devo salvare.
Ogni lunedì dell’anima e del corpo, anche io cerco una parola che mi salvi e nutra la vita altrui. E vi invito all’ultimo banco, che diventa così una tavola conviviale. Sedetevi. Riposatevi. Poi ripartiamo.
Fonte: A. D’Avenia | Corriere.it