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ULTIMO BANCO – 101. Natale per topi o per capitani?

«C’era una volta un uomo che andava in giro a vendere piccole trappole per topi. Non era un’attività redditizia e doveva ricorrere all’elemosina e a piccoli furti per tirare a campare. Ciò nonostante la fame gli brillava negli occhi. Nessuno può immaginare quanto possa risultare triste e monotona la vita per un vagabondo senz’altra risorsa che i propri pensieri. Eppure un giorno l’uomo si trovò a fare un ragionamento che gli sembrò divertente. Stava pensando alle sue trappole, quando gli venne l’idea che tutto il mondo attorno a lui, con terre e mari, città e villaggi, non fosse altro che una grande trappola per topi. Non esisteva che per mettere davanti agli uomini delle esche: offriva ricchezze e godimenti, case e cibo, calore e vestiti, proprio come una trappola per topi offre formaggio e carne, e non appena qualcuno si lasciava tentare a toccare l’esca, gli si richiudeva di colpo intorno, ed era finita». Così comincia La trappola per topi uno dei bellissimi racconti natalizi di Selma Lagerlöf. Svedese, Nobel nel 1909, la più grande scrittrice dell’800 secondo Marguerite Yourcenar, unendo fiaba e realtà, restituisce la capacità di stupirsi, come accade in questo racconto, nel quale il vagabondo, dopo aver rubato 30 corone a un mugnaio che lo aveva ospitato, fugge e si perde nel bosco. Sta per morire, come un topo in trappola, quando sente un suono metallico…

Segue il rumore e trova, esausto, una fucina, il cui padrone lo scambia per un vecchio amico, un nobile capitano di cavalleria caduto in disgrazia, e decide di ospitarlo. Il vagabondo sta al gioco e si finge l’amico ritrovato, pregustando già un nuovo furto ma, lavato e rivestito con abiti puliti, l’errore viene scoperto e così la sua vera identità. La figlia però convince il padre, che vuole cacciare l’uomo bugiardo, a trattenerlo: è la vigilia di Natale e rimarrebbe a digiuno, per strada. Così il vagabondo trascorre una vigilia meravigliosa, dormendo e mangiando come non gli accadeva da anni. Nel giorno di Natale però, padre e figlia, recatisi alla Messa vengono a sapere dal mugnaio del furto subito da un venditore di trappole per topi. Tornano in fretta, convinti di esser stati svaligiati, ma quando arrivano trovano sul tavolo proprio una trappola, trenta corone stropicciate e un biglietto: «Stimata Signorina, poiché è stata gentile con me come con un capitano di cavalleria, voglio essere gentile con voi come se fossi un vero capitano di cavalleria. Non voglio che lei pensi che il suo forestiero del Natale sia un ladro, anzi lei può dare indietro il denaro al vicino che ha la sacca dei soldi appesa al davanzale della finestra come esca per i poveri vagabondi. La trappola per topi è un regalo di Natale, da parte di un topo che sarebbe rimasto catturato nella trappola del mondo se non fosse stato elevato a capitano di cavalleria. E così ebbe la forza di cavarsela». Il vagabondo si trasforma in capitano, perché da capitano è stato trattato: questo lo libera dalla trappola del mondo che lo aveva ridotto a un topo. Rinuncia alla solita esca (derubare chi lo ospita) perché ha scoperto di non essere il topo che era convinto d’essere: la sua vita viene radicalmente «cambiata» dall’affetto gratuito, tanto da firmare il suo biglietto di commiato con il nome del capitano per cui era stato «scambiato». Ora, dice, avrà «la forza di cavarsela»: il «forestiero del Natale» ri-nasce, diventa libero, nasce (di) nuovo. Da topo a capitano, da animale a uomo. Egli diventa «come» è stato amato. A Natale si festeggia il fatto che Dio nasce uomo e la prima forma che si dà, come tale, è di «figlio», affidato all’amore e alle cure di una madre e di un padre. Questo, credenti o no, ha segnato il nostro Dna culturale: da Cristo in poi l’uomo non è più solo un pezzo di natura destinato a morire, ma un figlio destinato a essere amato. Topi o capitani? Noi diventiamo «come» siamo amati. Il Natale è la fine della prigione del mondo, perché se anche Dio viene al mondo, il mondo non è una trappola, se anche Dio impara a piangere, giocare, mangiare, dormire, lavorare, ridere, amare, soffrire, morire… tutte queste cose diventano divine, cioè occasioni di beatitudine. Sta a noi scegliere se esser topi che rubano felicità e aspettano la morte, o figli, unici nell’intera storia umana, chiamati a essere e fare ciò che solo noi possiamo essere e fare. Questo è divino! Grazie a Dio, so che non sono venuto al mondo per morire, ma per nascere ogni giorno di più ed essere ogni giorno sempre più vivo.

Me lo ha fatto capire mia nipote Beatrice, 4 anni appena compiuti, inventando una preghiera natalizia qualche sera fa: «Gesù, fai che mamma non muore, che Bea non muore e che papà non muore, voglio la famiglia intera e che non muoiono neanche tutti gli altri e i bambini delle altre case: tutti per sempre vivi». Tutti (per) sempre vivi. Natale è una domanda: sono vivo? In e attorno a me la vita fiorisce o no? Sto nascendo o morendo? Auguri di Nascita a tutti e a ognuno di voi!

Fonte: Corriere.it

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