«Mi hai sorpreso a un angolo di strada, mentre la città era piegata dal vento e dalla neve. Il Natale aveva rovesciato sui marciapiedi centinaia di umani angosciati all’idea di non avere abbastanza cibo e regali per le imminenti festività. I numerosi sacchetti appesi alle mie mani formavano intorno a me una corolla multicolore. Preda della frenesia degli acquisti, correvo da un negozio all’altro, preoccupato a ogni cassa di trovarmi a corto di denaro, fiero di averne abbastanza, ripetendomi la lista degli invitati per essere sicuro che ognuno avesse il suo regalo, prevenendo suscettibilità, immaginando le reazioni. Quando i miei sacchetti hanno inghiottito l’ultimo regalo indispensabile, a quel punto sei intervenuto tu». Di chi parla lo scrittore francese Eric-Emmanuel Schmitt? La risposta è nel titolo del libro da cui ho tratto la citazione: La mia storia con Mozart. A 15 anni entrò in una crisi che lo portò sulla soglia del suicidio, ma la musica di Mozart lo salvò e lo portò al conservatorio. Il libro, che va accompagnato dall’ascolto dei brani, è il diario di questi «incontri con la vita» grazie al compositore, perché la bellezza è iniziazione alla vita, risveglio di una vita nuova, che in noi si spegne per menzogna, paura e abitudine. Nella vigilia natalizia Mozart viene incontro a Schmitt grazie a un coro di anziani infreddoliti davanti alla cattedrale di Lione. Che cosa cantano?
L’Ave verum mozartiano, una preghiera che narra lo stupore per il fatto che Dio ha un «corpo vero»: «Salve, vero corpo nato da Maria» dice l’inizio. Mozart lo ha musicato (concedetevi l’ascolto di quei tre minuti miracolosi) in modo che non si può rimanere uguali dopo averlo ascoltato, come accade allo scrittore: «Natale… Mi rivelavi che stavamo vivendo un momento sacro. In pieno inverno, arrivati al momento in cui si teme che le tenebre prevalgano, quando verso il 20 dicembre la luce ricomincia a crescere, gli uomini di tutte le civiltà si riuniscono per festeggiare il solstizio, il chiarore timido, il ritorno della speranza. Nello stesso istante tu dicevi Ave, verum corpus: attribuivi un senso religioso al momento. Io non sono molto religioso. Tu — di una dolcezza inesorabile — mi costringevi però a un esame critico. Perché festeggi il Natale? mi domandavi. Perché spendi tutti quei soldi? Le risposte mi facevano paura. Dopo che per tutta la mattina mi ero sentito buono, scoprivo che ero soprattutto soddisfatto di me: cancellavo l’egoismo che aveva contrassegnato il mio comportamento durante l’anno, compensavo con regali le premure che non avevo avuto, le telefonate che non avevo fatto, le ore che non avevo dedicato agli altri. Invece di irradiare generosità mi compravo la tranquillità dell’anima».
Che cosa vuol dire avere un «corpo vero»? Dare tempo, perché il corpo è tempo di carne. L’amore non è altro che il dono del corpo-tempo che siamo, e tutto il tempo-corpo, che coraggiosamente diamo per amare, a sorpresa aumenta la vita invece di disperderla: solo l’amore crea vita nuova. Ciò è ancor più necessario nella cultura dell’es-corporazione: il digitale ci priva del corpo, sostituendolo (o opprimendoci) con la sua immagine, un fantasma onnipresente ma di fatto assente.
Poiché amare richiede dare tempo e corpo, ci difendiamo dalla paura di perderli, inviando comode proiezioni digitali: messaggi, immagini, email… e tutto ciò che ci «rappresenta», ma non ci rende «presenti» (che poi è un bellissimo modo di dire «regali»).
Schmitt, rapito dal canto, continua: «La mia frenesia di doni era un investimento per acquistarmi una buona reputazione. Non auguravo la pace, auspicavo solo la mia. Ed ecco che venivi tu a ricordarmi cosa festeggiamo. Il coro pacato mi indicava un mondo di cui non ero io il centro. Oggi non so se Dio o Gesù esistono. Ma tu mi hai convinto che esiste l’uomo. O che merita di esistere». Il corpo è ciò che Dio si e ci dà per essere «veramente» umani, per amare noi stessi e gli altri.
Natale, credenti o no, è la festa del corpo vero, perché se Dio si fa corpo, il corpo è salvezza, non il corpo digitale, martoriato dalle finzioni pubblicitarie, ma quello vero e fragile di un bambino affidato alle mani degli uomini. La vita è essere gli uni nelle mani degli altri, è manu-tenere: tenére nelle mani e aver mani tènere. A Natale non siamo affatto più buoni, ma ci possiamo ricordare che amare richiede tempo, cioè un corpo vero. Ne abbiamo bisogno, soprattutto in un momento che ci ha abituato a tenere i corpi «a distanza» e a percepirli come pericolosi.
Senza il corpo smettiamo di far esperienza del tempo, cioè di quel limite che dà senso alla vita, perché «sentire», in noi e negli altri, di averne poco, ci spinge a prendercene cura: amare. Farsi «vero corpo» è il mio proposito per il 2022: solo così sarà un «anno vero» e vero sarà anche il mio amore. Lo auguro anche a voi.
Fonte: Corriere.it