Il talento è la vita che ciascuno può ricevere in base «alla» capacità, cioè quanto può contenere un recipiente. I bicchieri hanno capacità diverse, ma non sono in competizione: ciascuno è pieno se riceve il liquido di cui è capace. A differenza dei bicchieri però, la «capacità» umana non è «cristallizzata»: si può espandere. In italiano infatti è tradotto con «capacità» la parola greca dynamis (energia), da cui dinamismo o dinamite. Si potrebbe tradurre: «A ciascuno diede talenti secondo la sua energia». Riceviamo tanta vita quanta ne possiamo e vogliamo ricevere di volta in volta: la vita ci viene incontro nella misura in cui le andiamo incontro. Questa capacità espansiva si chiama desiderio, «a ciascuno la vita è data secondo il suo desiderio»: talentuoso non significa quindi «capace» ma «vivace». Agostino lo spiega così: «Non potendo ora vedere il paradiso, vostro impegno sia desiderarlo. La vita è tutta desiderio. Ma se una cosa è oggetto di desiderio, ancora non la si vede, e tuttavia tu, attraverso il desiderio, ti dilati. Se devi riempire un sacco e sai che ciò che ti sarà dato è molto grande, ti preoccupi di allargare il sacco più che puoi. Dio con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e lo rende più capace. Viviamo dunque di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. La vita è esercitarsi nel desiderio». Esercitarsi nel desiderio, cioè ampliare la capacità di ricevere vita, è la definizione migliore di felicità. Al ritorno dal viaggio infatti l’uomo chiede «conto dei talenti», cioè «racconto della vita»: come ti è andata? Due su tre hanno raddoppiato, la vita è cresciuta in e attorno a loro, è diventata eterna, cioè viva, e infatti la gioia provata è confermata e moltiplicata: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla mia gioia». Colui che invece ha sotterrato il talento ha sotterrato la vita e si giustifica così: «Per paura lo andai a nascondere sotterra». Ha rinunciato a «vivere la vita» e si è «lasciato vivere»: seppellendo il talento ha seppellito se stesso. Se un solo talento è una quantità tale da esser sinonimo del lavoro di una vita intera, a quell’uomo è stato chiesto ciò che era alla sua portata per essere felice. Ma la paura e la pigrizia sono state la sua tomba in vita.
Nell’italiano delle origini talento significava non a caso desiderio: vivere in un talento è per Dante, nella famosa poesia per i suoi amici, aver gli stessi desideri. Dal 1700 in poi la parola si va invece identificando con «capacità», da vita in-determinata (desiderio) a pre-determinata (destino). Un 13enne, immerso nella cultura della prestazione e dell’autoaffermazione, è giustamente angosciato dalla legge del più forte o più fortunato. Proteggere la salute dei ragazzi oggi è farli esercitare non nel «potere» (domina il mondo) ma nel desiderio, nel «poter essere» (amplia il mondo).
L’educazione serve a trovare il desiderio che anima ciascuno, per essere «vivo». Aiutarli a scoprire come ricevere vita (i talenti) è il segreto della gioia: domandare «che talenti hai?» non è chiedere «che capacità hai?» (da cui il pilatesco ritornello: «ha le capacità ma non si applica»), ma «quanta vita puoi/vuoi creare?». E ciò dipende da una domanda più radicale: «Qual è il tuo desiderio? Che cosa puoi essere e fare solo tu?». Un’educazione che con-forta (dà forza a) questa «energia» (dynamis), dà vita alla vita, ma per far questo serve un percorso serio che negli anni aiuti i ragazzi a distinguere «i desideri» indotti da condizionamenti esterni, mode e ferite della vita, che generano dipendenza, e «il desiderio» autentico, che invece libera e moltiplica la vita. Noi educatori conosciamo il nostro desiderio? E il loro? Li aiutiamo a scoprirlo ed esercitarlo, perché noi per primi lo stiamo facendo? O li addestriamo alla logica sfinente della prestazione e quindi del potere?
Fonte: A. D’Avenia | Corriere.it