Ho dedicato un’ora intera al primo appello del nuovo anno, chiedendo a ciascuno dei ragazzi la parola-guida per il 2022. La parola ci precede: l’abbiamo dentro e ci guida, ma solo se la nominiamo con precisione, perché faccia accadere ciò che segnala, altrimenti la vita possibile, in essa custodita, muore. Così il primo appello dell’anno è diventato un elenco di «sinonimi» dei loro nomi: Ricerca, Speciale, Coltivare, Scoperte, Aggiornamenti, Focalizzazioni, Armonia, Rinascita, Esplorazione, Emergere, Ritrovamento, Fruttuoso, Mongolfiera, Potenziamento, Diverso, Esperienza, Cambiamento… Parole che tradiscono quel «desiderio» di cui parlavo la settimana scorsa e che oggi vorrei approfondire.
Come fare a scoprire ed educare questo principio di animazione che ci abita e ci rende capaci di moltiplicare la vita in modo inedito e gioioso? Il desiderio autentico è una fonte celata in noi, da cui scaturiscono ogni pensiero, parola e azione nuovi e creativi, ma è spesso sepolto sotto i detriti di falsi desideri indotti dalla cultura dominante e dalle ferite che abbiamo, ma è solo l’acqua di questa fonte che ci porta alla terra promessa a ciascuno di noi. Il desiderio autentico lo si riconosce infatti perché è libero, originale, audace, fecondo, non mortifica mai la vita ed è capace di abbracciare fatica e impegno come materia del suo realizzarsi: chi vi attinge trasforma l’aridità di un campo in giardino. Il desiderio autentico ci porta a prendere posizione in favore di qualcosa per cui siamo disposti a dare (la) vita, un pezzetto di mondo per cui ci scopriamo insostituibili: è unicità realizzata, fatta carne. Ma come scoprire questa fonte per potervi attingervi costantemente?
Risponde alla domanda un personaggio che ho amato nel bel libro di W. Somerset Maugham, «Il velo dipinto», dicendo a Kitty, l’infelice protagonista: «Ricordati che compiere il proprio dovere non è nulla, e che non si acquista più merito, a compierlo, di quanto se ne acquisti a lavarsi le mani. La sola cosa che conti è l’amore del dovere; quando amore e dovere saranno tutt’uno in te, allora sarai in stato di grazia e godrai di una felicità che supera ogni comprensione».
Lo stato di grazia è la coincidenza di amore e dovere: quando si agisce per amore e per amare. Quando io studio, spiego, scrivo, anche se mi costa fatica, sono in stato di grazia, e quella fatica si trasforma in luce, come fa la dinamo di una bicicletta, perché su tutto prevale il sentimento di una vita piena di senso. Non mancano i momenti in cui sembra invece prevalere un dovere disgraziato (senza grazia), quelli in cui mi pare di fare le cose solo perché vanno fatte: la spesa, le faccende di casa, le riunioni… ma poi cerco il modo di portare l’acqua del desiderio anche in questi «campi», così da trasformarli in stati di grazia (faccio la spesa immaginando che cosa creerò e per chi, pulisco mentre ascolto un audiolibro, partecipo a una riunione provando a cercare soluzioni che alleggeriscano le fatiche altrui).
Siamo pronti a tutto se ci liberiamo dai desideri che crediamo nostri — li abbiamo interiorizzati a tal punto da crederli tali — e se ci mettiamo al servizio del desiderio autentico. I desideri falsi portano infatti in stato di «disgrazia», come dice perfettamente Mariangela Gualtieri in questi versi di «Quando non morivo»: «Questo giorno che ho perso
e che non ha fruttato
se non una mestizia, il puntiglio
del suo modesto mucchio
di faccende.
Questo giorno che ho perso
ed ero nell’esilio
dentro panni che non erano miei
e scarpe che mi disagiavano
e tasche che non riconoscevo
e correvo correvo puntuale
senza neanche un dono
per nessuno. Solo un vuoto, corto
respirare. A conferma che nel disamore
il fare anche se fai resta non fatto».
Un giorno senza vero desiderio è vuoto.
Perché il fare sia pieno di grazia, la sua fonte (il desiderio) va liberata dal disamore e incanalata verso la terra che spetta a noi curare. Il desiderio autentico fa fiorire la nostra terra-vita, i desideri falsi invece la rendono sterile. L’educazione serve a liberare e far scorrere il desiderio autentico. Perché ciò accada, come suggerisce Massimo Recalcati, l’educatore è chiamato a: essere lui per primo testimone del desiderio autentico; far sentire il bambino/adolescente desiderato; costruire argini (l’esperienza dei limiti e dei no) perché il desiderio zampillante del bambino/adolescente non si blocchi o disperda (se repressa, l’energia dei portatori sani di desiderio diventa inevitabilmente distruttiva o autodistruttiva) ma si indirizzi al suo «campo»; non mettere chiuse (paura, mancanza di fiducia, aspettative soffocanti, controllo, sensi di colpa, indifferenza…) che fanno stagnare la pura acqua di fonte che la terra assetata aspetta da ciascuno dei nuovi.
Quest’acqua trasforma la terra in un giardino, quell’eden che troppo spesso crediamo di aver perduto, quando invece è solo da fare.
Fonte: Corriere.it