Il 9 dicembre 2014 la Santa Sede ha inviato alle diocesi di tutto il mondo la relazione finale del Sinodo straordinario sulla famiglia del 2014, che si trasforma così in documento di base per il Sinodo ordinario del 2015, accompagnata da un questionario in 46 domande. La relazione finale è quella già nota, preceduta da una breve introduzione, e si invita chi risponderà al questionario a non proporre «schemi e prospettive proprie di una pastorale meramente applicativa della dottrina».
Questa affermazione potrebbe suggerire a qualcuno che esista una pastorale indipendente dalla dottrina. Il linguaggio non brilla per precisione, ma per fortuna esistono chiare indicazioni di Papa Francesco secondo cui non è così. In una situazione in continuo mutamento, occorre certo adeguare la pastorale ai tempi nuovi, non limitandosi a ripetere stancamente la dottrina. Ma adeguare la pastorale non deve significare diventare relativisti, cioè trarre pretesto dai tempi mutati per mutare la dottrina. Parlando precisamente di pastorale, in un bellissimo discorso dello scorso 27 novembre ai partecipanti al Congresso mondiale della pastorale delle grandi città, il Papa ha affermato che «abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, ma non di una “pastorale relativista” – no, questo no – che per voler esser presente nella “cucina culturale” perde l’orizzonte evangelico, lasciando l’uomo affidato a sé stesso ed emancipato dalla mano di Dio. No, questo no. Questa è la strada relativista, la più comoda. Questo non si potrebbe chiamare pastorale! Chi fa così non ha vero interesse per l’uomo, ma lo lascia in balìa di due pericoli ugualmente gravi: gli nascondono Gesù e la verità sull’uomo stesso. E nascondere Gesù e la verità sull’uomo sono pericoli gravi! Strada che porta l’uomo alla solitudine della morte».
Il questionario non «nasconde Gesù e la verità sull’uomo» ai fedeli, anche se da sociologo lo trovo un po’ farraginoso, e tale da rendere difficile la risposta se non a quegli addetti ai lavori abituati al gergo «ecclesialese», che Papa Francesco invita spesso a mettere da parte per capire che cosa veramente si muove all’interno del gregge. La critica è legittima, ma se si limita alla lamentela diventa sterile. Il documento vaticano precisa che «le Conferenze Episcopali sono invitate a scegliere le modalità adeguate a questo scopo coinvolgendo tutte le componenti delle chiese particolari ed istituzioni accademiche, organizzazioni, aggregazioni laicali ed altre istanze ecclesiali». Organizzazioni, aggregazioni laicali, «istanze»… Si parla di noi!
Anziché limitarsi a protestare perché questa o quella domanda non è precisa rimbocchiamoci le maniche, chiediamo al Vescovo locale come intende procedere e mandiamogli – certo, non come singoli, ma come parrocchia, associazione, movimento: più o meno chiunque è una «istanza» – le nostre risposte. Di fronte a consultazioni di questo genere capita troppo spesso che i «buoni» non partecipino, e poi si lamentino perché hanno avuto voce solo i «cattivi». Non è vero che «non serve a nulla». Io stesso ho parlato con diversi vescovi, i quali auspicano che le risposte non arrivino tutte dalla stessa, solita parte.
Partiamo da quanto nel questionario – con tutti i suoi limiti – offre di buono e di condivisibile. Si chiedono segnalazioni di iniziative per «politiche sociali ed economiche utili alla famiglia» (n. 1), non disgiunte dalla «denunzia franca dei processi culturali, economici e politici che minano la realtà familiare» (n. 26): il questionario è mondiale, ma l’esperienza sociale dei cattolici pro family italiani qui ha molto da dire. Si chiede come si «reagisce alla diffusione del relativismo culturale nella società secolarizzata e al conseguente rigetto da parte di molti del modello di famiglia formato dall’uomo e dalla donna uniti nel vincolo matrimoniale e aperto alla procreazione» (n. 4). La domanda evidentemente implica che quel modello sia positivo e che al relativismo sia bene «reagire».
Bello è il riferimento al «“desiderio di famiglia” seminato dal Creatore nel cuore di ogni persona» (n. 6) e all’opportunità di coltivarlo e farlo crescere, come pure è precisa la menzione di «dimensioni di peccato» (n. 8), in cui sono coinvolti i giovani e i coniugi, «da evitare e superare». E totalmente condivisibile è la domanda del n. 10: «Che cosa fare per mostrare la grandezza e bellezza del dono dell’indissolubilità, in modo da suscitare il desiderio di viverla e di costruirla sempre di più?». A questa domanda se ne accompagna un’altra (n. 12), che richiede una concreta risposta pastorale – effettivamente, ribadire la dottrina non basta –: «Come si potrebbe far comprendere che il matrimonio cristiano corrisponde alla disposizione originaria di Dio e quindi è un’esperienza di pienezza, tutt’altro che di limite?». La dottrina la conosciamo, ma «come far comprendere»?
I giornali stanno già scrutando le domande relative ai conviventi, ai divorziati, agli omosessuali. Potevano essere più precise? Certamente sì, ma attenzione a non farsele spiegare da «Repubblica» e a leggerle per quello che c’è veramente scritto. Domanda 21: «Come possono i fedeli mostrare nei confronti delle persone non ancora giunte alla piena comprensione del dono di amore di Cristo, una attitudine di accoglienza e accompagnamento fiducioso, senza mai rinunciare all’annuncio delle esigenze del Vangelo?». Stiamo attenti: le persone coinvolte «nelle varie forme di unione» – come precisa la domanda 22 –, in cui pure «si possono riscontrare valori umani», devono essere «aiutate a giungere alla pienezza del matrimonio cristiano».
Il tema dei veri o presunti valori che si potrebbero trovare nelle convivenze era stato molto dibattuto al Sinodo, nella cui relazione c’è un paragrafo che ha raggiunto la prescritta maggioranza per un pelo, ed è passato per soli due voti. È il paragrafo 41, che invita a «cogliere gli elementi positivi presenti nei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, nelle convivenze». Il paragrafo 41 non è scritto in modo precisissimo, ma va letto insieme al paragrafo 27, che invita a «prestare attenzione alla realtà dei matrimoni civili tra uomo e donna, ai matrimoni tradizionali e, fatte le debite differenze, anche alle convivenze. Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio. Molto spesso invece la convivenza si stabilisce non in vista di un possibile futuro matrimonio, ma senza alcuna intenzione di stabilire un rapporto istituzionale».
Ne risulta con chiarezza – ancorché rimanga il carattere ambiguo del n. 41 – che il fatto che alcuni siano sposati civilmente o convivano da anni con «notevole stabilità» e «vincolo pubblico», educando bene i figli, ha un suo valore rispetto a chi semplicemente passa instabilmente da una relazione all’altra o convive senza alcuna intenzione «istituzionale» di stabilità, ma la Chiesa prende in considerazione questo elemento «come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio» e non per lasciare le cose come stanno.
Da sociologo, mi sono pure permesso di spiegare su queste colonne che se c’è un dato che la sociologia della famiglia ha messo in luce negli ultimi anni è che, contrariamente a una superstizione corrente, chi convive prima del matrimonio non fa diminuire i rischi di divorzio ma li aumenta (leggi qui) Il questionario invita a migliorare i corsi prematrimoniali: forse l’adeguata spiegazione di questo dato sociologico potrebbe aiutare.
Quanto ai matrimoni civili, va apprezzato che nella domanda 32 si precisi che la risposta va data «alla luce dell’insegnamento della Chiesa, per cui gli elementi costitutivi del matrimonio sono unità, indissolubilità e apertura alla procreazione», e che i famosi «elementi positivi» delle unioni civili e delle convivenze vanno presentati alle coppie «in maniera da orientarle e sostenerle nel cammino di crescita e di conversione verso il sacramento del matrimonio» (n. 33). Detto in altre parole, «come aiutare chi vive nelle convivenze a decidersi per il matrimonio?».
Sulla comunione e altre possibilità pastorali per i divorziati risposati, al di là dell’invito a migliorare le procedure relative alle cause di nullità, prudentemente il questionario fa stato di una discussione che il Sinodo non ha risolto: «La pastorale sacramentale nei riguardi dei divorziati risposati necessita di un ulteriore approfondimento, valutando anche la prassi ortodossa e tenendo presente “la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti” (n. 52). Quali le prospettive in cui muoversi? Quali i passi possibili? Quali suggerimenti per ovviare a forme di impedimenti non dovute o non necessarie?» (n. 38).
Forse si sarebbe potuto precisare che i paragrafi della relazione finale del Sinodo relativi alla prassi sacramentale per i divorziati risposati, pur pubblicati, non hanno ottenuto la prescritta maggioranza dei due terzi e dunque non costituiscono parte del messaggio del Sinodo alla Chiesa. Ma almeno il questionario trasmette correttamente l’impressione che non c’è stato accordo tra i padri sinodali su queste questioni, e che è necessario riflettere ancora. Anche qui, chi e come risponderà al questionario sarà importante.
Anche il paragrafo sull’omosessualità (n. 55) della relazione finale del Sinodo, come sappiamo, non aveva raggiunto la maggioranza dei due terzi. Rileggiamolo: «Alcune famiglie vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con orientamento omosessuale. Al riguardo ci si è interrogati su quale attenzione pastorale sia opportuna di fronte a questa situazione riferendosi a quanto insegna la Chiesa: “Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”. Nondimeno, gli uomini e le donne con tendenze omosessuali devono essere accolti con rispetto e delicatezza. “A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 4)».
Non c’è nulla di più del «Catechismo» e il riferimento è a un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede il cui scopo era parlare male delle unioni civili, DICO, PACS e compagnia cantante. Perché allora alcuni padri, soprattutto africani, non hanno accettato questa formulazione? Perché non c’è scritto chiaramente che gli atti e la stessa tendenza omosessuale sono «disordinati», come pure insegna il «Catechismo». Senza questa precisazione, pensa chi ha votato contro e ha impedito al paragrafo 55 di conseguire la maggioranza dei due terzi, il rispetto e la non discriminazione verso le persone potrebbero essere fraintese come riferite agli atti.
La posizione degli oppositori ha qualche fondamento, tuttavia anche se la si accoglie il testo è criticabile per quello che non dice, non per quello che dice, e trasformarlo come continua a fare qualche giornale in una apologia del riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali – al contrario, condanna chi propone analogie «anche remote» con il matrimonio – significa molto semplicemente non avere letto il testo. Che peraltro è completato dal n. 56, il quale invece ha raggiunto la maggioranza prescritta: «È del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso» («matrimonio», correttamente, è scritto tra virgolette).
Si poteva scrivere di più e meglio? Si poteva. Il Sinodo insegna – o la maggioranza, sia pure non dei due terzi, dei padri avrebbe voluto che insegnasse – che le unioni civili omosessuali alla Renzi o addirittura il «matrimonio» sono accettabili? Non è vero, e chi lo sostiene è un bugiardo.
Anche sul tema degli omosessuali il questionario, prima di alcune domande finali che hanno tra l’altro il merito di fare positivo riferimento – in tema di anticoncezionali – all’enciclica «Humanae vitae» del beato Paolo VI, si mantiene sulle generali: «Come la comunità cristiana rivolge la sua attenzione pastorale alle famiglie che hanno al loro interno persone con tendenza omosessuale? Evitando ogni ingiusta discriminazione, in che modo prendersi cura delle persone in tali situazioni alla luce del Vangelo? Come proporre loro le esigenze della volontà di Dio sulla loro situazione?» (n. 40).
Come si vede, non si suggerisce che la condizione omosessuale, e tanto meno la relativa pratica, «vanno bene», e l’espressione «ingiusta discriminazione» si trova nel «Catechismo» del 1992. Alle persone omosessuali, si dice, vanno proposte «le esigenze della volontà di Dio». Quali sono? La risposta si trova nel «Catechismo»: riconoscere che gli atti omosessuali sono «intrinsecamente disordinati» e – se non si riesce a superare la propria condizione – astenersene, vivendo in castità. Certamente i padri che si riuniranno per il Sinodo del 2015 conoscono a memoria il «Catechismo». Sembrerebbe persino scortese il ricordarlo, né rispondendo al questionario dovremo – lo chiede la Santa Sede – limitarci a ribadire una dottrina che si suppone nota, mentre siamo sollecitati a condividere «best practices» sul piano pastorale e anche culturale e politico. Facciamolo, dunque. Se poi ci capiterà, mentre rispondiamo, di ricordare qualche punto di dottrina – certo, in vista della pastorale e non di una discettazione teologica – non è detto che questo non possa, a modo suo, far bene.
Massimo Introvigne | LaNuovaBQ