Quanto possiamo imparare dalla tormentata elezione a presidente della Repubblica di Mattarella? Innanzitutto a distinguere lo statuto della parola da quello della chiacchiera che il nostro tempo, invece, confonde colpevolmente. In questa confusione è certo che anche la politica ha le sue profonde responsabilità. Non si tratta di una distinzione banale. La filosofia e la psicoanalisi l’hanno ribadita anche sul piano categoriale.
La chiacchiera è senza peso, vuota, irresponsabile. Può mutare rapidamente direzione e contenuto senza che questo sollevi alcun problema. Il suo abito è aleatorio, la sua disposizione camaleontica, la sua volubilità senza consistenza la offre a farsi strumento di raggiro. Per questo la chiacchiera può essere tranquillamente priva di coerenza etica e logica.
La parola implica invece l’esistenza di un peso. Non assomiglia ad un vento che segue una direzione incerta, ma ad una lama che taglia e lascia il segno. Per questo “dare la propria parola” implica l’esistenza di un patto che non si può ignorare anche se non è stato scritto, se non si è inquadrato in un contratto. Dare la propria parola significa sentirsi impegnati nel proprio essere al suo rispetto. La parola in questo senso non è mai separata dalle sue conseguenze poiché essa, diversamente dalla chiacchiera, porta con sé la responsabilità della risposta. Non è questo che ci ha insegnato il “Si!” di Mattarella prima di ogni altra cosa? La parola può avere ancora un peso, può ancora distinguersi dalla chiacchiera, può rispondere responsabilmente ad una chiamata. Quando giustamente si descrive questa ultima imbarazzante pagina della nostra storia repubblicana come un manifesto della crisi della politica, dobbiamo innanzitutto ricondurre questa crisi alla crisi più profonda della parola. Ma il tatticismo politico non esclude forse a priori l’esercizio etico della parola? Il raggiungimento dei propri fini non piega la parola al suo uso più strumentale?
La figura di Mattarella è divenuta così popolare nel nostro Paese perché incarna il rigore etico della parola contro i girotondi della chiacchiera ai quali la vita politica si è spesso degradata. Basti osservare le mosse, prive di ogni scrupolo istituzionale, che hanno preceduto il rinnovo del mandato al nostro presidente. Il problema non è solo il disfacimento del centrodestra, che esce decisamente sconfitto da queste elezioni, ma della politica in quanto tale. In questa ultima legislatura, prima che si inaugurasse l’attuale governo di unità nazionale resosi necessario dalla violenza della pandemia, si sono susseguiti due governi retti da una sistematica disattesa della propria parola da parte dei partiti che li hanno resi possibili.
In questo contesto Mattarella è un simbolo culturale e civile al servizio del Paese e in particolare delle nuove generazioni che sono orfane del valore della parola. È questa la versione simbolica del padre di cui i nostri figli hanno bisogno: testimoniare che la parola ha un peso, cioè ha delle conseguenze, che essa non può venire disossata dalla chiacchiera irresponsabile. Non a caso il comandamento biblico che afferma di onorare il padre porta con sé un riferimento esplicito al peso. La parola ebraica kavòd che viene tradotta con “onore” ha come suo significato originario proprio la parola “peso”. È quello che si dice quando riconosciamo che una persona ha un “peso”.
È la posizione che attualmente Mattarella incarna. Egli ha dovuto contraddire la sua intenzione di non rinnovare il proprio mandato non nel nome della vanità personale ma per onorare fino in fondo la propria parola di servitore dello Stato. In un tempo in cui le istituzioni sono state denunciate come irreversibilmente corrotte dalla retorica populista, dove gli intellettuali hanno sostenuto posizioni da adolescenti irresponsabili in materia di pandemia e la politica si è rivelata non solo incapace di governare il nostro Paese, ma anche di assolvere al compito di indicare un successore condiviso alla sua presidenza, troviamo che “almeno uno” si è rivelato in grado di arrestare l’inondazione irresponsabile della chiacchiera restituendo il giusto peso alla parola. Si chiama testimonianza: incarnare la propria parola nei propri atti. Il nostro tempo ne ha estrema necessità come un malato di Covid ne ha dell’ossigeno.
Fonte: Massimo RECALCATI | LaRepubblica.it